Maurizio Maggiani: C’era una volta la favola Italia, un paese dei balocchi che non ama i bambini
Oggi andrò a Sestri Levante a raccontare una storia. Lo faccio da anni, è una cosa che mi piace. C’è sempre gente che mi viene a sentire, al Premio Andersen Festival come altrove, ed è un’esperienza bella e misteriosa. Gente che si raccoglie attorno a uno di loro per ascoltarlo allo stesso modo di centomila anni fa. Parole che navigano nell’aria e vengono raccolte, suoni dell’immaginario che diventano emozioni condivise. Una magia fatta di niente in un’epoca di meravigliose magie televisive, di fantasmagorici effetti speciali. Eppure funziona, a Sestri Levante, a Parigi, a Genova, così come funzionava nella cucina dove sono nato, in un paese qualunque degli anni Cinquanta, quando finita la cena mia nonna prendeva a raccontare di qualcosa di stupefacente che era capitato quel giorno, da qualche parte, a qualcuno; una tra le sue mille favole del quotidiano.
Funziona e viene sempre più gente, e ci sono narratori assai più bravi di me che raccolgono folle attorno alle loro storie; funziona perché forse tra gli umani comunicare è una necessità molto più complessa di come può apparire ai produttori di spot televisivi.
Funziona forse perché ogni volta che ho finito di raccontare una storia vedo attorno a me delle persone in qualche modo amiche e fraterne, e non degli sconosciuti, ed è la cosa più bella, una magia che nessuna tecnologia può ricreare.
E poi mi dicono che ai concorsi e ai festival di storie di bambini, a Sestri e altrove, partecipano sempre meno storie e sempre più brutte. Che la favola è praticamente morta, che non c’è più chi ha voglia di raccontarle le favole, che non c’è più chi ha voglia di starle a sentire. Io so che è vero solo per metà: semplicemente non c’è chi ha voglia di raccontarle. Non più in questo Paese. Un Paese che ha in odio la fatica di amare, amare per davvero, i propri bambini. In questo Paese (e ho viaggiato abbastanza per constatare il raccapriccio di questa unicità) i bambini vengono ignorati, tollerati, vezzeggiati, ma non amati. E nemmeno voluti. I bambini sono una fatica che cerchiamo di risparmiarci, come intendiamo risparmiarci la fatica di costruirci uno straccio di futuro. Sono, bambini e futuro, un prezzo che andrebbe a gravare sulla montagna di costosissima spazzatura che fa da placebo alla disperazione di questo Paese di favole, altre favole, bugiarde.
È una gran fatica raccontare a un bambino. Mettere in moto cervello e cuore per inventare qualcosa per lui, qualcosa che non sia una qualche sciocchezza raccolta nella spazzatura di cui ci nutriamo. Meglio comprargli un giocattolo, accendergli la televisione. Una per lui e una per noi, che siamo stanchi e ci fa tanto bene non pensare a niente. È una gran fatica anche parlare e basta a un bambino. Un bambino pretende qualcosa di più delle idiozie che ti scambi con i colleghi di lavoro, ti fa domande a cui è molto faticoso rispondere, ti chiede sincerità e immaginazione, generosità e lealtà, cose da fantascienza nella tua realtà quotidiana.
È una gran fatica prendersi cura, davvero, di un bambino. Mantenergli buone scuole, offrirgli una città a sua misura, servizi accoglienti, prodotti che lo facciano crescere sano nel corpo e nell’anima. È una fatica anche nelle cose più banali. Andate in una città olandese, tedesca, francese, guardate quanti negozi per l’infanzia ci sono e cosa vendono. Noi abbiamo le griffes per i nostri bambini, perché, ci mancherebbe, li vogliamo, quei pochi che sono, davvero fighetti, altrove hanno tutto il resto, la sostanza. Qui abbiamo da dargli dei robots che ammazzano in 100 modi diversi, a Rio de Janeiro i bambini vanno a scuola con le loro cartelle troller, piccoli, buffi viaggiatori, perché non si spezzino la schiena come i nostri affardellati in zaini da marines.
In quanti ristoranti di questo Paese trovate un menù dedicato a lui? In quante scuole un giardino, in quante librerie il suo scaffale che non sia carico del solito best seller, in quante giocherie qualcosa di fantasioso e intelligente, in quanti quartieri una casa per il suo tempo libero, un parco per la sua bicicletta, un lago per le sue barchette, un teatrino per i suoi sogni? Quanto spende questo Paese per la crescita dei suoi figli, in rapporto agli altri Paesi d’Europa? In questo Paese si sono vinte diverse elezioni tirando su centri per anziani, ma avete idea della solitudine di un bambino di questo Paese? No, perché non gli avete mai chiesto il voto. E quello dei suoi genitori in certe città è in vendita per una ricarica da 20 euro per il cellulare. Il cellulare del figlio, naturalmente. Perché tutto quello che sappiamo raccontargli, tutte le storie che conosciamo per lui, bastano e avanzano per un Sms.
Quest’anno in Olanda il premio letterario più prestigioso è andato a un libro per l’infanzia, per la semplice ragione che non si fa differenza in quel Paese con la letteratura per adulti: hanno la stessa importanza. Nel Paese della televisione più insulsa del mondo, del campionato di calcio più ricco, dove lo Stato ha finanziato anche i film porno, un bravo scrittore di storie per l’infanzia può farlo solo come secondo lavoro, nei ritagli di tempo, se vuole anche solo pagarsi l’affitto di casa. Già, in Italia non si fanno più figli. E perché mai dovremmo aver voglia di vedere nel loro pianto, nel loro sorriso, il riflesso della nostra vergogna?
“Tratto da “Il Secolo XIX”, 31 maggio 2003″