Maurizio Maggiani: Un buon ricordo

So cos’è l’ospedale dei bambini. Sono uno tra le molte migliaia di provinciali che le prime cose che ha saputo di Genova le ha viste da un finestrino del "15". L’ho vista così tanto tempo fa, la mia prima Genova, che allora l’autobus era un tramvai e io così piccolo che arrivavo appena a poggiare il mio nasone sul bordo freddo di metallo e con il mio respiro appannavo il vetro, così che più che vedere intravedevo, e ogni cosa mi pareva misteriosa e leggiante in una indefinita vastità.
C’ero arrivato a Genova quella prima volta con la littorina delle 6,30; un viaggio iniziato nel buio dell’ultima notte. La prima parola che ho potuto leggere ai primi chiarori dell’aurora è stata Lavagna grandi lettere maiuscole in un cartello appoggiato ad un’altissima muraglia. E mi era venuto in mente la scuola, la cartella con dentro i colori e l’odore dell’inchiostro appena versato nel calamaio. E allora mi è anche venuto in mente che io non ero a scuola, ma ero lì a fare un viaggio verso un posto sconosciuto dove guarivano i bambini malati. Forse sì, forse no, perché così avevo sentito bisbigliare tra mio padre e mia madre: forse sì forse no. E forse, sprofondato nel velluto setoso e tiepido del sedile della littorina, non mi dispiaceva poi così tanto essere malato e viaggiare nella notte come in un sogno e nel giorno che si andava facendo su un mare mai visto, come in un sogno che non sarebbe finito mai.
Sono entrato per il portale del Gaslini con una mano nella mano di mio padre e l’altra nella mano di mia madre, infagottato in un cappottone con la martingala così abbondante – nonostante tutto c’era la viva speranza che io crescessi ancora, almeno da riempire quel bel cappotto – che l’orlo mi solleticava i polpacci. I polpacci erano nudi perché allora i bambini portavano i calzonetti fino all’insorgere del primo pelo e anche oltre, con loro somma vergogna.
Sono entrato al Gaslini e mi è sembrato il posto più bello del mondo, di certo il posto più bello che avessi mai visto.Per via del parco con le palme e le grandi finestre dei palazzi arrotondati. E la camera dove mi hanno portato, la camera dove io avrei abitato per quindici giorni, il posto migliore che un bambino avrebbe potuto desiderare. Venivamo da una piccola casa di campagna, prima di quella mattina non avevo mai saputo che avrei potuto avere una camera per me. E la prima cosa che mi è successa non è stato che mi hanno fatto un’iniezione, né nessun’altra delle cose orribili che un bambino sa dell’ospedale, ma strani giochi con formelle colorate.
Tutto quello che ricordo di quei quindici giorni in cui ho cercato di mettercela tutta per guarire da un male che non conoscevo è un buon ricordo, come se qualcosa dentro di me si fosse sforzato di portarmi in vacanza dal mio male. O, forse, come se qualcosa nell’ospedale dei bambini, del come era fatto e del come funzionava, fosse riuscita portarmi in vacanza.
Ho un avuto un compagno di stanza in gita con me per molti di quei giorni. Lui si ricorda ancora di me e io di lui. Non ci siamo mai più incontrati, ma ogni tanto ci mandiamo messaggi; è incredibile, sono passati 45 anni, siamo stati insieme forse dieci giorni, ma siamo in qualche modo, particolarissimo e strano, amici. Abbiamo cercato tutti e due di guarire, abbiamo giocato un sacco per riuscirci, e parlato e fantasticato ogni sera prima di addormentarci. Io non ho mai più avuto un amico così vicino la sera, nell’ora delicata e sensibile che porta al sonno e ai sogni. E so che quella è stata una buona medicina. Come so che nel tramvai che mi riportava a Brignole e alla littorina del ritorno, col naso appiccicato al finestrino guardavo passare corso Italia e le sue meraviglie e intanto sentivo nostalgia per il mio amico di stanza, per la minestra con le stelline e i giochi complicati che certi dottori mi facevano fare tutti attenti e speranzosi, come se fossero le più grandi imprese del mondo.
Dicono che il Gaslini sia il migliore ospedale per bambini del mondo. Io non lo so questo, e forse non è neppure importante un primato così ardito. Quello che so è che se sono qui a scrivere è perché ci sono stato una volta per una lunga gita assieme a un mio nuovo amichetto. Quello che so è che il mio amico Gianfranco aveva lo stesso identico sguardo di mio padre la mattina che è entrato per quel portale con la sua figlioletta in braccio. Quello che so è che lo sguardo di Gianfranco era, ancora come quello di mio padre, assai diverso il pomeriggio che da quel portale è uscito con la sua bambina per mano.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 10 marzo 2003