Maurizio Maggiani: Lettera al capo della polizia

Gentile signor De Gennaro, sto chiedendo a me stesso e sono qui a chiedere a lei, se mai sarà fatto dono alla città di Genova di vederle sciogliere il suo, encomiabile, voto di riservatezza e ascoltare dalla sua viva voce, dalla voce del Capo della Polizia, un’attendibile, esaustiva interpretazione di quella sorta di storia notturna della mia città che si è compiuta tra il 20 e il 22 luglio del 2001 e di cui le forze d’ordine da lei allora e tutt’oggi dirette, sono state interpreti d’eccezione. So di chiederle molto, e di farlo impropriamente. So che la discrezione è una virtù tanto rara quanto essenziale per un uomo nella sua posizione, so che il silenzio fa salve molte vite e molte dignità, so di non apprezzare la loquacità di altri. Cionondimeno so anche che a un uomo dello stato va chiesto di essere uomo della responsabilità, e se pure c’è un responsabile silenzio, quello non basterà: servirà alla sua dignità la sua voce.
E servirà la sua voce a rendere giustizia a questa città; questa città che ha saputo fare il suo lavoro di comunità civile, che ha saputo riparare i danni inferti alla sua civiltà, e che – sarà un caso? – oggi è stata scelta da una ancora ignota ditta di professionisti del terrorismo balistico come luogo di sperimentazione per nuovi modelli di bombe a tripla azione. Le scrivo queste parole e nel farlo mi rendo conto di chiedere qualcosa che negli attuali costumi suona a dir poco bizzarra; mi affido dunque alla sua inattualità. Quante polizie c’erano signor De Gennaro a Genova nei giorni noti oggi nel mondo come “i giorni del G8 di Genova?” Una, due, tre? Il poliziotto in assetto antisommossa che al “gomito di corso Italia” mi ha indicato una buona via di fuga dalle manganellate dei suoi colleghi, faceva parte della stessa polizia che si è raccolta attorno alla scuola Diaz ? E di quella facevano parte anche quelli che ci sono entrati?
Quante polizie c’erano signor De Gennaro, e quante lei ne ha effettivamente dirette? Una, tutte, nessuna? I magistrati stanno facendo il loro lavoro che consiste nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità che li hanno generati; quanto dell’efficacia del loro lavoro può essere determinata dal suo riserbo? Alcune cose i giudici le stanno chiarendo, altre no. Ho la certezza che sfasciare una vetrina sia un reato – a meno che, naturalmente, non sia la vetrina di un fornaio e chi la sfonda stia morendo di fame – e sono dell’opinione che la motivazione politica di quell’atto sia un’aggravante, non un’attenuante. Oggi ci sono in carcere dei sospettati di questo reato compiuto un anno e mezzo fa con la motivazione che potrebbero reiterarlo.
Bene. Ma non basta.
Abbiamo un buon questore ora nella città di Genova, e questo, mi pare, è l’unico risarcimento che ci siamo meritati. Ma il giusto, equo risarcimento può essere solo la verità dei fatti. E questa sta in parte nelle sue mani. Sì, lei si è assunto davanti alla commissione parlamentare le sue responsabilità, il risultato è che al momento possiamo godere di tre verità: quella della maggioranza, quella dell’Ulivo e quella di Rifondazione. Non è il genere di verità dei fatti che possa rendere giustizia. A meno che non si accetti l’orrore, non ignoto a questo paese, che quella è l’unica che ci meritiamo, l’unica che serve a tirare avanti.

Tratto da “Il Secolo XIX”, 19 dicembre 2002