Maggiani l’anarchico racconta e spopola al Duse di Genova
Mauri, ancora una volta, ha aperto il suo album di foto di famiglia. E lunedì sera ha radunato una folla straordinaria attorno al fuoco nonostante la pioggia battente. Il falò si è acceso al Teatro Duse, dove Maggiani – ma qui ci piace chiamarlo con il nomignolo della sua infanzia e del suo paese "Castarnu", Castelnuovo di Magra – ha inchiodato centinaia e centinaia di persone gocciolanti in una veglia rischiarata dall’intelligenza e dall’affetto della memoria con il primo incontro del ciclo "Maurizio Maggiani racconta storie nella Storia: epiche gesta dagli anni ’40 ai ’90 del secolo XX".
In maniche di camicia, bretelle calanti, la pipa imboscata in tasca, un tavolinetto sul palco con sopra la bottiglia del dolcetto e un gotto, lo scrittore ha confermato la stoffa del grande affabulatore.
Costruisce storie che nascono sui fiati, sulle pause di un parlato piano, a tratti in un dialetto ligure antico, sulle interruzioni e le domande che si rimbalzano tra il pubblico, sui botta e risposta e il feedback che si instaura quando si crea una condivisione vera. Maggiani con un sorriso bonario che non attutisce il giudizio sferzante butta giù una manciata di domande tremende: se è vero che noi, noi uomini, dal più umile al più potente, siamo la storia, cos’è la libertà, qual è il senso e la proporzione della vita.
La risposta, con "La leggenda dell’anarchia" dura un’ora e mezza, strappa la risata e l’applauso, un poco commuove. Svaria dalla marcia su Roma alla morte di Togliatti a Dante Alighieri nei panni del fine diplomatico che per un anno mangiò a ufo a Castelnuovo per dirimere una contesa confinaria tra i Malaspina del Ramo Secco e i Vescovi-conti di Luni. Il risultato di tanta perizia è, ancora oggi, un surreale percorso a zigzag dell’Aurelia che sfora in province diverse a ogni curva.
Ma la narrazione apparentemente rapsodica di Maggiani, che seleziona un punto di vista ben preciso, è soprattutto un risarcimento verso gli umili, verso tutti coloro le cui storie resterebbero nel silenzio se qualcuno non desse loro una voce. Prende le mosse da una vecchia foto stampata nel libretto del CD di canzoni popolari "Sento il fischio del vapore" di De Gregori e Giovanna Marini. Rappresenta delle giovanissime mondine con un sorriso che dodici ore tra il fango delle risaie e le zanzare, le malattie, il padrone, non hanno saputo cancellare. Sono gli anni ’40, e la storia è ciò che rimane vivo, nonostante tutto. La dignità, la signorilità, la grazia e la gioia di vivere.
Una canzone, un ballo nel fienile con la fisarmonica, l’amore, un paio di scarpe buone. Emerge la Lunigiana, quella Val di Magra orgogliosa e dura dove sbocciò l’anarchia e in cui sono "Todos caballeros", fieri del lusso aristocratico della libertà, signori del proprio destino e protagonisti di una storia di cui nessuno ha scritto il finale. E’ una storia familiare da cui partono, di digressione in digressione, mille rivoli. Un microcosmo che nella narrazione si allarga in un grand’angolo che investe i fatti grandi della Storia. Maggiani richiama i suoi Penati: il nonno anarchico Garibaldi alto quasi due metri, uomo di poche parole che però parlava con le acque dei suoi campi, lo zio fabbro di precisione che si era fabbricato una fragorosa dentiera d’acciaio, la "movimentista", emancipata zia operaia che negli anni ’50 andava al lavoro in Vespa ma si beccò una sonora sberla dal padre quando, nel suo unico gesto "estetico" plasmò con la creta di un mattone la statuetta di un uomo nudo per il nipotino Mauri, i preventivi del padre Dino elettricista, tracciati a matita, con la precisione dell’onestà, su fogli a quadretti estratti con cura dai quaderni di Mauri.
Tutti invariabilmente conclusi con una formula che suona come un progetto di vita "Il tutto a regola d’arte. Maggiani D.". Il prossimo appuntamento al Duse (lunedì 2 dicembre ore 20.30) è con gli anni ’50 e si intitola "Valicare il Bracco: la modernità, il lavoro, la radio e il Giro d’Italia". Si consiglia di presentarsi al botteghino in anticipo per evitare intasamenti e ritardi.
Tratto da “Il Secolo XIX”, 24 novembre 2002