Maurizio Maggiani: Voglio capire non celebrare

È una percezione che non riguarda soltanto il mio Paese, ma che è possibile rilevare nell’Europa intera, e persino altrove nel mondo, in quella parte del mondo che si fa opinione attenta, attiva, problematica. È un fatto che quello che è successo a Genova in questi giorni dell’anno passato abbia segnato una generazione di ragazzi, è probabile che abbia addirittura formato una nuova generazione. O che la stia formando; perché ciò che è accaduto è la definizione di un confine, l’inizio di un processo che si chiarirà nel tempo e nel come il tempo sarà usato da questa generazione.
Se le aspirazioni sapranno diventare pensiero, ad esempio, se il pensiero si farà abbastanza forte da diventare politica efficace. Così come il tempo chiarirà se la pratica repressiva messa in atto quei giorni è stata “semplicemente” uno sciagurato episodio o il collaudo, non ben riuscito, di un nuovo sistema di relazione tra Stato e cittadini.
Io vorrei usare bene questi giorni di anniversario. Vorrei usarli per ricordare e, avendo memoria, per capire. Capire più e meglio cosa è successo, intanto, e poi, magari, ricavarne qualcosa di utile perché le mie idee si facciano più larghe e il mio sguardo più lungo. Questo vorrei fare, ma non so se mi sarà possibile.
La città di Genova ha offerto se stessa ancora una volta, ancora come l’anno passato, perché chiunque avesse qualcosa da dire e da offrire potesse farlo in libertà. Lo ha fatto con generosità, lo ha fatto ripetendo un atto di civiltà e di civismo che non mi sembra poi così diffuso in molte altre città del mondo, s posso dirlo.
La generosità è stata gradita e il programma delle iniziative liberamente gestite dai molti diversi soggetti è addirittura mastodontico. Già oggi una quantità di parole, di immagini, di suoni G8 Anniversary sta riempiendo il cielo della città. E sento qualcosa che stona, che non mi piace, che non mi aiuta a usare come vorrei questo tempo per un uso utile e fecondo.
Avverto l’odore a me non molto gradito di un grande, suggestivo, spirito celebrativo. Almeno per quanto riguarda questo settore della vita non amo le celebrazioni e nemmeno le suggestioni; la celebrazione è nemica della memoria che discrimina e riflette; la celebrazione ha bisogno di riti, di celebranti e di fedeli, invita a partecipare di un mito, non a capire un fatto della storia.
I miti si alimentano di dei e demoni e i celebranti sono lì apposta per indicarli ai fedeli perché li preghino o li aborriscano. I celebranti hanno un’ambita ma assai difficile carriera da difendere bramano l’adesione non certo la discussione.
Li vedo già all’orizzonte della città in avvicinamento con il loro codazzo di media. Sacerdoti di fedi diverse costretti ad alzare il tono delle loro prediche per essere ascoltati e catturare il maggior numero di devoti; zelanti sacerdoti che finiscono per contendere tra loro sull’ortodossia della fede e la legittima proprietà della memoria e del rito.
Non mi piace; vorrei che questa città che si apre al mondo e accoglie le idee difformi, fosse in questi giorni per sempre la città delle ragioni e dei pensieri, non delle nuove fedi, dei nuovi santi e dei nuovi diavoli. Vorrei sentire il rumore sottile di nuove idee che si vanno formando, vorrei che ci fosse abbastanza silenzio per poterlo avvertire quel rumore.
Vorrei che la parola Genova che verrà pronunciata diversi milioni di volte, la parola che è diventata metafora, metonimia, sineddoche e acronimo per l’universo intero generato un anno fa appena, non fosse usata come spoglia, trofeo, premio, nella contesa tra le fedi. Vorrei vivere questi giorni una città dove chi la userà avrà ben chiaro che non è di nessuno, se non di se stessa. Vorrei sabato poter andare a Piazza Alimonda per ricordarmi di una vittima, non di un martire. Vorrei poterlo fare con discrezione, come si conviene al cospetto di una morte, essendomi risparmiato di dover contendere la sua memoria con l’apparato del martirologio, quella pratica di mistificazione della morte, della vita, così cara alle nostre antiche culture contadine e alle moderne abitudini politiche.
Vorrei poter non scorgere sulle facce dei molti ragazzi che incontrerò per strada la sottile paura per qualcosa che potrebbe succedere, vorrei che non fosse reale quella che potrebbe essere una loro angosciante incertezza: che le forze dell’ordine abbiano imparato ad amare il disordine.

Tratto da “il Secolo XIX”, 18 luglio 2002