Maurizio Maggiani: Pantani, mio eroe ti prego ritirati

È un pezzo che non cerco più miti tra gli umani, ed è un bene, immagino, visto che un uomo adulto deve sapersi orientare nella vita fidando sui suoi simili per quello che sono. Certo, ogni tanto ho nostalgia per i miei idoli infantili, per gli eroi che ho creduto di incontrare, per i miti che ho amato. Non nego che mi piacerebbe, nei molti momenti non facili dell’epoca che vivo, prendere un po’ di vacanza dalla coscienza dell’età adulta, per potermi affacciare ancora all’Olimpo, incontrare gli dei benigni con cui da ragazzo ero in confidenza, lasciarmi portare nell’ingenua felicità, così confortante, delle loro strabilianti avventure sempre a lieto fine. Anzi, senza mai una fine per davvero: i miti di un ragazzino durano in eterno, le mitologie non finiscono mai. Peccato che non possa succedere più, che un uomo non abbia diritto ad una sua quota di fanciullità, magari anche solo un’oretta alla settimana, dove poter trovare ancora un po’ di spazio per giocare al riparo di una favola. A dire il vero io ho cercato di durare la mia infanzia il più a lungo possibile, di portare con me i miei antichi eroi fin dove poteva spingersi la mia fiduciosa credulità, la mia e la loro innocenza; quando ho dovuto lasciar perdere è stato un dolore, quel dolore lo porto con me come una sconfitta. Ricordo con esattezza come è stato che è morto il mio ultimo eroe, il giorno che si è infranto il suo mito.
Lo so perché è un’immagine che ho ancora qui davanti: il sonno di Pantani in una notte d’albergo di un giro d’Italia. L’eroe giace supino sul letto avvolto da tubi, trafitto da aghi. Intorno a lui macchinari aspirano, iniettano, misurano, vigilano, avvertono. All’eroe stanno ripulendo il sangue, rifornendo nuove forze, avvantaggiano i muscoli, infondono spirito. L’eroe è un pezzo di carne consumata che domattina sarà di nuovo pronto alla vestizione e al sacro cimento della gara. Nella notte il miracolo è stato compiuto, nell’ambito della più rigorosa legalità, dalla dea della medicina agonistica. La dea è così potente che il cuore dell’eroe deve essere costantemente controllato, perché potrebbe cedere nel sonno a un infarto. Ma per me quel miracolo non c’è mai stato, per me da quei fili e quei tubi il mio eroe è stato strangolato.
Si dà il caso che io sia nato a Castelnuovo in una casa al bordo dell’Aurelia, nell’unico rettilineo per molti chilometri buono per una volata. Si dà il caso che seduto su un paracarro di quel rettilineo io abbia passato la mia infanzia a veder passare i ciclisti di milioni di gare e garette di campagna. Si dà il caso che sulla curva dopo il dosso alla fine del rettilineo io abbia lasciato chilogrammi di tenera carne infantile, escoriata cercando di farmi una carriera di ciclista a bordo di una bicicletta di ghisa un cancello, come propriamente era definita – giuntami per amorevole mano paterna dai beni ancestrali di famiglia. Si dà il caso che sia cresciuto nella convinzione che non ci fosse al mondo nulla di più eroicamente faticoso, nobilmente proletario, squisitamente elegante che correre su una bicicletta.
Ho visto correre un anno via l’altro tutti gli dei dell’Olimpo, li ho visti vincere e perdere; li ho amati allo stesso modo che ho amato i loro scudieri, scorbutici gregari che ho sentito bestemmiare e piangere per il dolore e la gloria di un piazzamento. Ho passato panini con cotoletta e marmellata, persino borracce di vermentino, a dèi che per diecimila lire i massacravano nei circuiti di paese, o per mille volte tanto lo facevano tra Liegi e Bastogne. Li ho sempre pensati innocenti e puliti, anche quando stramazzavano a terra dopo una fuga in salita, bruciati dalla simpamina. O quando si prendevano a pugni perché non riuscivano a far quadrare le loro folli, bizantine conbines di squadra, intersquadra e di che. Li ho portati con me nella mia vita di adulto scafato, tutti quanti, come un’unica infinita storia di eroi, un’Iliade, resistendo caparbiamente alle verità e ai i dice in nome di quello che ho sempre visto di loro: una maglietta, un paio di braghette, un pezzo di ferro tra le gambe e sotto i piedi.
Fino al sonno di Pantani, al sonno mortifero del mio ultimo eroe. Morto l’eroe è rimasto l’uomo, l’uomo corridore. Del corridore non mi interessa più niente perché non ha più niente da farmi amare da un bel pezzo. Dell’uomo mi interessa, per umana solidarietà, per affetto, per misericordia, un destino che non scolorisca e non sconci il ricordo del mio eroe. Non per le macchine e i tubi che mi hanno così ferito, ma per altre e preclare porcherie – che ci fossero allora o siano venute dopo non importa – ha finito per essere impresentabile a ciò che resta di uno sport al suo livido tramonto. Dedicandosi con ossessiva caparbietà a battere le strade dell’impudicizia diventerà presto odioso anche a se stesso. Appellandosi al primo ministro come esperto di persecuzioni giudiziarie, copre di ridicolo ciò che resta della dignità civile. Lo faccia per i molti che lo hanno amato, per chi non vuole dimenticarsi di lui, se proprio non lo vuole fare per e stesso, per il proprio orgoglio e per l’onore: si ritiri. La prego signor Pirata, mio eroe: cambi un’ultima volta il suo destino, non muoia ai nostri occhi anche come uomo.

Tratto da “il Secolo XIX”, 4 maggio 2002