Zona Rossa Mercoledì

Sono arrivato ieri notte, con l’ultimo treno. Non l’ultimo della giornata, l’ultimo della settimana. Ho cercato finché ho potuto di essere ragionevole, equilibrato, adulto, ma alla fine ho ceduto e ho asceso il primo gradino della paranoia: l’ultimo treno, come a Yuma, come a Stalingrado, come a Varsavia: sto entrando in una città che sta per essere chiusa. Mi sono specchiato nello sguardo della gente che è scesa con me: circospetto, impacciato.
Ho fatto il mio ingresso al varco di Piazza Matteotti; ho consegnato lasciapassare e documenti al posto di blocco illuminato in un certo qual modo inquietante: luci forti e concentrate, ombre lunghe e dure attorno alla porticina nella barriera. Carabinieri in tenuta da campagna, stanchi, nervosi, mentre rasente la bandiera della torre del Ducale un elicottero militare indugia a esplorare con la sua fotocellula non so quale budello di vicolo. Tutto questo l’ho già visto in qualche film, ma io non sono un film, non sto recitando, nemmeno i carabinieri sono attori. Tutto questo è realtà, compreso il sospiro di sollievo che esalo quando mi vengono restituiti i documenti. Di che cosa devo aver timore, io, cittadino incensurato, contribuente fedele? Di nulla, proprio di nulla. Allora perché mi sento sollevato se i tutori dell’ordine mi lasciano andare a casa a dormire?
Paranoia. Che mi piaccia o no, non riesco ad essere più forte della situazione, né abbastanza intelligente da saper distinguere l’immagine dalla sostanza della situazione. Si, paranoia. Già ieri prima di arrivare mi sono accorto di esserci cascato. Al telefono. Quando ho censurato un’amica che mi parlava dei primi disagi. “belin, ci metterei una boma!” ha esclamato con la voce dell’innocenza. Quante migliaia di volte ciascuno di noi ha imprecato a quel modo? Ma questa volta mi sono preoccupato di spiegarle di stare attenta a parlare. Lei non ha capito, è troppo giovane, nuota nella democrazia. Io ho qualche ricordo in più di lei. E non solo io. Ho notato che in questi ultimi giorni parecchie altre persone fanno un uso assai più distaccato della conversazione telefonica. Ho forse è solo una mia impressione. In ogni caso un pessimo segno.
Sono settimane che immaginiamo, disegniamo, pronostichiamo la Zona Rossa. Ma questa mattina è la realtà. Mi sveglio nel silenzio: non c’è il mercato sotto casa, non c’è la coda al semaforo. Esco nel vuoto. Vuoto di passi, di voci, vuoto di bambini ansiosi d’acquario, vuoto di negozi e di merci, vuoto di colori. Nel vuoto si muovono uomini in divisa, silenziosi, cauti. In via Gramsci si muove a passo d’uomo un lungo corteo di idranti.
Per arrivare in De Ferrari, devo superare quattro controlli. Al terzo comincio a familiarizzare con i militari. Battute un po’ meste, auguri, anche. Scoprirò anche in seguito che nella gran parte sono gentili e pazienti. So che ognuno di loro ha dovuto leggere un manuale di comportamento. Evidentemente è un buon manuale. Ma due vecchie signore con la sporta sotto braccio sono in fila davanti a una grata presidiata: dove ho già visto questa fotografia?
De Ferrari è stupenda e tremenda, perfetta e assolutamente deserta, senza neppure un passaggio dei piccioni. Non la vedrò mai più così per tutta la mia vita. Comunque lo spero: credo che sia questo l’effetto della bomba al neutrone. C’è qualche negozio aperto. Entro dappertutto a comprare qualcosa: per solidarietà, forse, per simpatia, per non sentirmi l’unico sopravvissuto. C’è pure una farmacia funzionante e mi controllo la pressione: perfetta. Il farmacista non si fa pagare.
Alla fine mi perdo nei vicoli nel tentativo di trovare un varco aperto verso la zona Gialla. Si è perso con me un tale. Mi si accosta e mi dice in confidenza: Visnù è incazzato, loro non loo sanno quanto si sia incazzato Visnù.

Tratto da “Secolo XIX”, 18. luglio 2001