Piazza De Ferrari, 16cento, Genova. Un buon indirizzo per i ragazzi che vogliono tornare a scuola e sono lì in piazza con i loro cartelli di mite rivolta e i loro slogan di fin troppo beneducata protesta. 16cento, chissà come gli sarà venuta in mente questa sigla così originale e criptica, perfetta per un hashtag, a viene difficile anche solo scriverla questa parola, e per niente adatta ad essere brandita a squarciagola in un corteo. Ma forse loro non vogliono squarciarsi la gola, pare che invece vogliano parlare e essere ascoltati, e tornare a scuola, farla finita con la sua macabra versione a distanza. Come siamo diversi, io alla loro età manifestavo, a squarciagola, perché a scuola non ci volevo proprio più mettere piede, non in quella scuola. Come ci assomigliamo io e loro; sì, quei ragazzi sono affamati come lo sono stato io, e come ancora mi capita di essere. Affamati della fame più trista, la fame di vita. Chiusi nelle loro case ammanettati ai loro smartphone si sentono soffocare come soffocavo io inchiodato al banco di legno di una scuola greve di conformismo classista, che ancora doveva purgarsi dell’ideologia della trascorsa dittatura. Fame di libertà, fame di un libero destino, fame di un futuro tutto da immaginare ma lì, proprio lì davanti a me, in attesa delle mie mani, del mio cuore, della mia determinazione. Solo che loro sono messi peggio, molto peggio. Se potevo immaginarlo il mio futuro, se pensavo di poterlo costruire, era perché l’orizzonte mi appariva ancora sgombro e promettente, ereditavo la speranzosità dei padri fondatori della repubblica. Ma loro cosa hanno avuto in eredità, cos’altro se non disperante è l’orizzonte che gli abbiamo regalato? Infinita depressione, precarietà germinale, immobilità sistemica, un mondo sul crinale della crisi climatica finale, come a dire, siamo alla fine ragazzi, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. A questi ragazzi manca l’aria perché gliela hanno sottratta i loro padri e i loro nonni, gli affamati di un tempo che si sono satollati di qualcos’altro da quello che andavano gridando a squarciagola. E ora si spazientiscono perché la generazione degli sdraiati si è tirata su dai divani e, tanto per cominciare, vuole uscire di casa e andare a scuola, dove, a differenza della mia, almeno questo, possono trovare una dimensione passabilmente umana di relazioni umane e di conoscenza. Implicitamente mettendo alla luce che il problema non è la generazione degli sdraiati, ma quella che li ha messi al mondo, la generazione degli sdraiatori.