Ecco, c’è stato là, tra la montagna Apua e quel poco di piana di qua dai canneti versigliani, un paese di contadini senza terra, di manovali e cavatori, un paese da niente di gente da niente, in mezzo a quel paese stava una casa, una casa da niente e dentro quella casa viveva una famiglia, una famiglia da niente ma grande, riempivano quella casa, in mirabile equilibrio di vuoti e di pieni, quello che rimaneva di quattro generazioni di miserabili contadini, e manovali e cavatori, si era nel mezzo degli anni ’50, quella casa era abitata da superstiti, scampati alla disgrazia e alla tragedia della Guerra, sopravvissuti alla distruzione, la casa stessa era un superstite, sopra le sue fondamenta passava il fronte della Linea Gotica. Ma in quella casa c’era un bambino, la quarta generazione, un bambino nato nel tempo della pace, il primo nato dopo che non sembrava che potesse più nascere niente, il figlio della disgrazia e il figlio della speranza, io ero quel bambino. Ero un bambino che cresceva e cresceva, cresceva nella miseria ben protetto dalla speranza che l’aveva partorito.
Ecco, quel bambino ha vivida, presente memoria di un Natale, forse il ’55, forse il ’54, il primo Natale che seppe cos’è l’augurio, oh, non la parola e nemmeno il significato, ma la sua carne e le sue ossa, la sua materia. Ricorda questo, ricorda la cucina della casa, la casa da niente, la cucina calda e affollata di un grande tavolo, un tavolo che per farlo così grande era stato aggiunto di uno scurone tolto dalla finestra, intorno al tavolo tutte le sedie della casa, anche la sedia con la gamba storta e la paglia sdrucita che era la sedia della gatta, sulle sedie tutta la famiglia della casa, tutta quanta nelle sue generazioni con in più lo zio Mattutino che era venuto non si sa da dove. Sulla tavola due tovaglie, che una non bastava, e piatti, bicchieri, cucchiai e forchette, e fiaschi di vino nella frasca e bottiglie di acqua fresca di Vichy, e due ruote di pane grandi così, che un uomo doveva stendere tutto il braccio per stringersele al petto e affettarle, il bambino l’avevano messo nel mezzo, con un cuscino sotto il culo perché arrivasse a prendere le cose e a servirsi dal piatto senza sbrodolarsi, come un principino. Nella cucina quasi come un silenzio di poche parole, di raschi e sussurri, un bicchiere che si riempie, posate che si muovono, la famiglia sta aspettando, e il bambino è così compreso nell’attesa che quasi quasi vorrebbe addormentarsi per sognarla.
Laggiù, nella parete in faccia al tavolo, c’è un focolare, ancora ce n’erano di accesi a quel tempo, nel focolare, sopra una gran brace, una marmitta appesa per il gancio, nella marmitta colma di acqua spumeggiante sobbalzavano i ravioli della matriarca, morbidi, teneri ravioli grandi come guanciali, ripieni de tuto er bon, di ogni cosa buona che la casa aveva messo da parte e raccolto nell’orto e per le ripe; due parti di boragine lessata e una de prebugion, la crosta grattata del formaggio e il culo della mortadella battuto alla mezzaluna, il rosso dell’uovo e quel po’ di santoreggia, che poca che ce se ne dovesse mettere incensava tutta la cucina già dai recessi della marmitta. Il bambino amava i ravioli dello stesso amore che nutriva per la matriarca, il bambino aspettava il suo piatto per poggiare la guancia su quei cuscini e addormentarsi nel vapore odoroso, e solo in sogno prendere e mangiarseli. Il bambino guardava la matriarca, tutti intorno alla tavola la stavano guardando, anche se non sembrava, anche se qualcuno aveva la testa sul suo piatto vuoto, la matriarca era inginocchiata sulla soglia del focolare, la pietra serena che portava incisi l’anno in cui era stata posata e le iniziali di chi l’aveva fatto perché lì restasse in eterno, inginocchiata la matriarca era grande quanto un fagotto, ai piedi portava scarpe sbrindellate con un buco all’altezza degli alluci perché non le facesse troppo male l’artrosi, aveva davanti a sé un’enorme fiammenga di terra, c’erano sbrecci qua e là negli orli. E teneva per il lungo manico una rama e con quella pescava dalla marmitta i suoi ravioli, li lasciava colare sospesi nei vapori e li poneva con la massima cura nella fiammenga, quindi, da un tegame posto al limite della brace cavava una bella cucchiaiata di sugo e lo spargeva sui ravioli come seminasse. Il sugo era scuro e spesso, era sugo per una grande festa, consumato fino all’essenza, interiora di coniglio tritate con un altro po’ di mortadella e funghi chiodini, quei funghi con la testa grande come quella di uno spillo e profumati come fiori che la matriarca cresceva in fondo all’orto sul ceppo marcito di un pioppo. E ancora un gran ramata di ravioli e una cucchiaiata di sugo, e ancora ravioli e sugo finché la fiammenga non ne era piena. Allora la matriarca la prese tra le sue mani, le sue mani erano stecchetti di vite e la fiammenga immensa, raccolse tutte le sue artrosi in un’unica, maestosa ascensione e si issò in piedi. Il bambino vide la sua matriarca ritta davanti a lui, avvolta nei vapori e nei profumi e, lui non sapeva niente di questo ma lo sentiva, nel sacro di uno sconfinato amore. Prendete e mangiatene questo è il mio corpo, prendete e mangiatene questa è la mia vita, prendete e mangiatene è tutto ciò che posso fare per voi.
Niente di quel primo giorno di Natale è rimasto, non la casa da niente, che c’è, ma disabitata e senza più camino, non la grande famiglia da niente, che s’è dispersa di là dalla miseria, e nemmeno il paese da niente, che oggi è assunto a ben altro rango di paese da poco, niente è rimasto tranne il bambino, che oggi assomiglia a un anziano signore con le sue manie, e tra queste la fissazione di preparare per il giorno di Natale un pranzo di ravioli, e per quel giorno, al prezzo di grandi inventive e volteggi, mettere assieme una grande famiglia dentro una grande cucina, se non con il camino almeno con un grande fornello. Quella sua mania di girare i mercati per trovare ancora del prebugion, e mettere via per tempo le croste del formaggio, e annaspare per le ripe al tempo che la santoreggia fiorisce, che quella compra non dice di niente, e tenere da qualche parte, trasloco dopo trasloco, la macchinetta a manovella Invicta per tirare la pasta. Tutto così patetico, tutto così fuori luogo e misura, solo per arrivare a quel punto, ad alzare la fiammenga sopra la tavola, prendete e mangiatene, questo sono io. Almeno per oggi che io sia l’augurio.