Ho letto L’assemblea degli animali, la saggia favola scritta dall’ignoto, sapiente Filelfo, pubblicata ormai qualche tempo fa; in poche e superficiali parole la favola narra di come gli animali dell’intero creato si riuniscano in assemblea per decidere che provvedimenti prendere avverso all’uomo che sta distruggendo il pianeta, la casa comune di tutti gli esseri viventi. Dopo lungo dibattito deliberano dal loro parlamento di pari, lì dove la voce del leone conta come quella dell’ultimo insetto, di consegnare un avvertimento chiaro e inconfondibile, una pandemia. E gli umani non avranno che da soccombere o imparare, e impareranno soltanto ricordando di far parte di un’unica anima del mondo. Di questa favola “selvaggia” me ne sono intenerito, me ne sono estasiato, la gioia che dà un’intelligenza buona, la sua serena scrittura. E mi ci sono incaponito, dovrei pur imparare a lasciarmi andare ancora una volta almeno alla favola bella dove trovare consolazione e fiducia; ma poi mi vengono in mente le foglie, sì, le foglie. E le foglie non sono una fiaba, ce le ho qui sotto i piedi. Le foglie che ancora una volta al tempo dovuto hanno preso a cadere, e ancora adesso che l’albicocco ha già le rame in gran fiore, nel giardino della Fratellanza la roverella continua a lasciar andare le sue nell’ultima buriana. È singolare come faccia così poco caso alle foglie quando sono ancora al loro posto sugli alberi, certo, sono lì, le vedo e tiro avanti. Ma quando cadono io prendo e vado a guardarle, le guardo e le riguardo quante più posso perché ai miei occhi sono bellissime, la cosa più bella della loro stagione.

Muoiono le foglie quando cadono? Dicono di sì, e dunque la morte è una cosa bella da vedere. La cosa più bella da vedere delle foglie. E io vedo che quando le foglie cadono hanno un disegno, come le stelle del cielo; è un progetto, un’intenzione che si compie solo alla fine del tempo delle foglie cadenti. E la loro bellezza è una per una, eppure, se così fosse, non basterebbe, perché la loro più grande e più vera bellezza è nel tutto, nella composizione che si disvela portando gli occhi a terra. Non nella morte in sé, dunque, ma nell’ecatombe, nella strage sarebbe la bellezza più grande. Se è vero che le foglie cadendo muoiono. Nell’infinito romanzo della Bibbia, dice il libro della Sapienza, “Dio non ha creato la morte. Ha creato le cose perché esistano, le forze presenti nel mondo sono per la vita e non hanno in sé nessun germe di distruzione, sulla terra non sarà della morte l’ultima parola”. Già, lo dice anche Filelfo, la morte non è faccenda che riguardi l’universo, è solo disordine umano, è l’orma della mia suola, il getto di piscio, la carta di caramella, il puntale del mio bastone, io che passo e mi fermo a guardare, e cogito. Ergo sum. Le foglie sono, sono sull’albero e sono cadendo, ma pensano? Vallo a sapere, io non lo so, diversamente da Filelfo. Io non sono di loro, io non parlo con loro e loro non parlano a me. Capita in certi momenti beati di lasciarmi pensare diversamente ma è solo dolce, consolante chimera, il mio stato di umano mortale necessita dell’assidua cura della consolazione. Io sono solo colui che passa, si ferma e guarda. E siccome ha inventato la morte, può risolversi a pensare che le foglie quando cadono vanno a morire in un meraviglioso disegno di pura bellezza.

Da dove sono venuto per arrivare fin qui, all’orma delle mie suole tra le foglie? Dice ancora quel romanzo, così grande che si sospetta sia stato ispirato da Iddio in persona, che vengo dall’Eden, la meraviglia del creato, il giardino dove si compendia il perfetto disegno dell’universo. Là, nella perfezione, ero tutt’uno con ogni essere e cosa, con le foglie e il serpente, l’argilla e il corvo, se pensavo, pensavo con ognuno di loro, animale tra gli animali, acqua nell’acqua.  Beatitudine senza ombra, la morte non aveva speranza alcuna di ingresso. Poi è successa una cosa strabiliante, solo a me, singolarità nell’evoluzione, un demone mi ha offerto la conoscenza, lo sguardo dall’alto sull’universo, non solo pensare, ma anche sapere, e sapendo, scegliere. Libero arbitrio, il bene e il male, la vita e la morte.  Non era la conoscenza, era la dimenticanza, vorrebbe Filelfo. Ma io penso che no, il creato non conosce, l’universo è, e io ho rotto il grande disegno, infranto il perfetto equilibrio, sciolta la comunione, disturbatore dell’universo l’universo mi ha espulso dal beato giardino, e sono diventato umano, la specie tutta cultura e sentimento. Una creatura zoppa e solitaria che non potrà che andare e andare e andare, e imparerà a fare della sua zoppità e solitudine armi micidiali di sopravvivenza. Ha imparato molte altre cose strabilianti, ma non imparerà mai la strada per tornare da dove è venuta. La cacciata è per sempre, l’andarsene è stata la scelta a un bivio di strade che si uniranno all’infinito. Un milione di volte ho sognato di poter tornare, ogni volta che ho scelto per la vita ho pensato a un passo per il ritorno, ogni volta che ho scelto per la morte so di aver scavato un fosso alle mie spalle, ma anche se gli umani dovessero un giorno arrivare a sapere tutto, tutto quello che sapranno è solo la loro lingua. Solo di certi santi, forse uno per millennio qua e là per le terre del mondo, si sospetta che abbiano imparato la lingua di altri esseri, talmente splendente la loro inumanità che altri esseri si sono fidati a insegnargli la loro; quello che facciamo noi altri è mettere in bocca agli animali la nostra lingua, fargli il torto di renderli umani.

Eppure l’umano tra il molto che fa può ancora scegliere per la vita, io e Filelfo siamo d’accordo, e se non può tornare può continuare a sognare senza rattrappirsi in un incubo. I sogni sono grandi potenze costruttrici. Sono nato all’aria aperta, letteralmente, sono cresciuto in mezzo alle piante e agli animali, sguazzato nel fiume, infangato nella mota, ma niente era selvaggio intorno a me, tutto domestico, l’umano era ovunque, persino nei lombrichi che andavo a raccogliere sotto il letame per farne esca nella pesca dell’anguilla, se c’era qualcosa di veramente selvatico era l’indole di certi umani. Selvaggio, incontaminato, non erano parole della nostra lingua, fossimo stati capaci di pronunciarle sarebbe stato per definire una insensatezza di pericolosa inutilità, eppure sono vissuto nella familiare naturalezza con ogni cosa fino all’orizzonte.   Questo in virtù di un duro complicato accordo tra gli umani e l’universo, frutto di trattative plurimillenarie con la grandine e il serpe, la cicoria e l’asino, il pero e l‘acqua. Un patto per la salvezza sancito nella rudimentale, impoetica, lingua di quegli umani, un patto che per la sua osservanza pretendeva molte vittime, anche tra loro. Sì, mia nonna parlava con l’orto e mio nonno con la vigna e la cavalla, forse in quella lingua ancora allignava l’orma fossile del beato giardino, ma il suo nome era ignoranza, arretratezza, superstizione, miseria. I bei tempi non erano così belli, e io che so cosa è andato perduto, ma non tornerei neanche morto a impiastrarmi di merda perché non ho centrato il buco nella baracchetta in fondo all’orto. Il mio destino, il mandato della cacciata è andare, andare, andare, e il meglio che posso fare è evitare di innamorarmi della morte e invitarla a banchetto, Sapienza I, 16. Ingegnarsi per un nuovo patto, come vuole Filelfo, è consolazione intanto che lasciamo al tempo di fare il suo lavoro, ma, volendo, il vecchio accordo è ancora lì anche se non so calcolare di quanto eroismo è necessario disporre per riaprirne il tavolo, né di quante vittime andrebbe tenuto il conto. Né, tantomeno, se al tavolo vedrò sedersi il creato. In ogni caso la posta non sarà la vita sul pianeta Terra, ma solo la vita degli umani a venire. Per quanto danno possiamo fare, non sarà mai niente in confronto alle telluriche tregende dell’era permiana.