I polesani sono venuti l’anno che io ero appena nato, gli avevano trovato un fondo avanzato dalla riforma agraria con una cascina dove al tempo della guerra c’era il comando dell’artiglieria dei tedeschi, i partigiani ne avevano fatto saltare in aria un po’, i polesani ci stavano in cinque o sei famiglie, erano tutti parenti. Maschi e femmine hanno tutti preso a lavorare nel fondo, che s’era inselvatichito già da prima della guerra perché il conte Piceti l’aveva perso alle carte e chi gliel’aveva portato via s’era poi sparato; due dei maschi li ha presi la cooperativa della miniera, poi la miniera è venuta giù e c’è morto mio zio Mattutino, così i due polesani che se l’erano scampata sono andati anche loro a vangare nel fondo, a quel tempo avevo già cinque anni e di loro ne sapevo già tanto. Sapevo che erano venuti di notte e io avevo appena quaranta giorni, erano venuti tutti quanti nel cassone di un camion e non avevano di cappotti, ma si coprivano con delle coperte, le coperte erano spesse e dure, erano coperte dei militari, e quando li hanno fatti scendere dal camion e li hanno illuminati sembravano tutti dei fantasmi di morti in guerra; mio padre e mio nonno erano andati a vederli e erano tornati a casa di corsa a prendere dei fiaschi di vino per scaldare gli uomini, in cucina c’era del brodo di gallina e mia nonna s’è messa a scaldarlo per i bambini, c’erano parecchi bambini dentro le coperte da soldato, di brodo caldo ne ha fatte tre gamelle piene fino all’orlo, mia madre mi stava allattando. Sapevo che c’era stata quella gran disgrazia, per quello che erano venuti, mio padre teneva in casa dei giornali con le fotografie; c’era stata quella gran disgrazia e i polesani erano rimasti senza niente, così di camion con i cassoni carichi di gente non è che ce ne fosse stato uno solo, ma cento e mille, da noi era venuto quello perché c’era appunto il fondo del conte Piceti con la cascina. E sapevo che erano scorbutici e non parlavano mai con nessuno, e comunque tanto non si capiva quello che dicevano perché non parlavano l’italiano. E in verità sapevo che anche noi a italiano eravamo indietro, perché mio padre si lamentava sempre che in casa c’era solo lui che sapeva parlare a suo figlio come un libro stampato, come un libro che suo figlio sarebbe andato a studiare a scuola, e in paese solo lui e quei tre o quattro suoi amici che si vedevano con lui la domenica da Tinfena a comprare il giornale, che tra di loro parlavano per l’appunto l’italiano che c’era nel giornale, il loro giornale era il giornale dei lavoratori. Per via del giornale mio padre aveva legato con uno dei polesani che erano andati a lavorare nella miniera perché la domenica andava anche lui da Tinfena a comprarsene uno, e dunque anche lui parlava l’italiano del giornale, e così si parlavano tra loro e si capivano; mio padre diceva che era una gran brava persona e anche se non comprava lo stesso giornale anche il suo era un giornale dei lavoratori. Come dicevo, al tempo che poi la miniera sarebbe venuta giù io avevo solo cinque anni e non andavo ancora a scuola, ma mio padre mi aveva insegnato a leggere le parole grandi, e la domenica mi portava con lui e mi faceva leggere le locandine che Tinfena appendeva con le mollette fuori dal negozio, nelle locandine c’era i titoli delle notizie che poi uno leggeva nel giornale e io le sapevo già leggere tutte quante; così sapevo leggere il titolo del giornale di mio padre e quello del polesano, in quello di mio padre c’era scritto Unità, in quello del polesano Avanti!; del polesano che comprava il giornale ricordo solo che portava sempre la camicia bianca e era grande il doppio di mio padre e dei suoi amici e quasi il triplo di Tinfena, ma non vuol dire perché erano tutti piuttosto grossi i polesani. Io lo sapevo che erano così perché avevo già il permesso di arrivare fin sull’Aurelia, la strada di Roma che andava in tutto il mondo e passava anche dal nostro paese; non di attraversarla, questo era proibito perché era facile morirci su quella strada così grande, ma andare sul ciglio sì, stare attenti e restare di qua dalla canaletta, e arrivare fino alla cooperativa a comprare il companatico, e già che c’ero arrivare fino in fondo al paese dove c’era la cascina con dentro i polesani e i figli dei polesani, i figli dei polesani stavano sempre insieme lì nell’aia a giocare e a litigarsi e erano tutti quanti grandi e grossi anche loro. Potevi vederli solo lì nell’aia e in mezzo ai campi i figli dei polesani, perché non andavano mai da nessuna parte; qualcuno andava a scuola e si sapeva che a scuola non parlavano mai con nessuno, nemmeno con la maestra, e nessuno parlava con loro perché non c’era nessuna soddisfazione a farlo. Erano polesani, erano figli della disgrazia, c’era solo che da stare zitti; a quel tempo c’era la banda dei Cento Tetti perché venivamo tutti da quella via, anche se ero piccolino e, come si diceva allora, un po’ debole di petto, io c’ero dentro e sentivo i più grandi che discutevano se i polesani avessero una banda anche loro e se allora si poteva provare a picchiarcisi, ma poi andavano in avanscoperta e tornavano a dire che non c’erano bande e non c’era soddisfazione.
Mio zio Umberto è uno dei polesani della disgrazia, e anche lui era grande e grosso, anzi, lo è ancora adesso che ha più di ottant’anni. E non ha mai detto delle gran parole e continua a star zitto più che può, sempre con quell’aria seria da non dire, son di Rovigo e degli altri non me ne intrigo, dice, se sollecitato, in un una fluente lingua italiana ormai del tutto priva di inflessioni. Pensare che invece mia zia Cesarina ha un bel carattere ciarliero e ridente, e è sempre stata minuta e delicata, e oggi che è vecchia e con non poche artrosi non ha smesso di assomigliare a un uccello canterino. Eppure si sono fidanzati e poi si sono sposati, e sono ancora lì e si vogliono bene come sanno farlo due vecchi sposi appagati di quello che è successo tra loro. E nessuno ci fa più caso da un pezzo, ma al tempo del loro fidanzamento è stata una cosa ben strana, un fatto unico, visto che non era mai successo che un polesano si spingesse dalla sua cascina fin lì, fino all’intrinsecamento con una del paese, e viceversa. Io c’ero, ho visto tutto dal principio tra loro due, c’ero per tutto il tempo della lunga corte, c’ero al fidanzamento e tutte le sere che il polesano veniva a casa nostra a trovare la sua fidanzata, c’ero quando la portava al cinema e quando andavano a ballare, ero sempre in mezzo tra loro due, è stato il mio compito fino al giorno dello sposalizio; di loro due l’unica cosa che non so è come sia riuscito mio zio a farsi uscire di bocca abbastanza parole da far innamorare la Cesarina, non era mio compito stare a origliare, e questo è dunque un mistero mai disvelato. Ai polesani piaceva ballare, a tutti, maschi e femmine, e già nell’estate dopo la disgrazia avevano preso ad affacciarsi al salone del Mutuo Soccorso dove la domenica pomeriggio c’era l’orchestra, entravano nella sala, guardavano qua e là e poi finivano per ballare tra di loro fratelli e sorelle, cugine e cugini, perché al principio non avevano il coraggio di invitare e nessuno li invitava, così mi hanno detto. Anche a mia zia piaceva ballare, a quel tempo non c’era nessuno che non gli piacesse il ballo; piaceva persino anche a me che ero un bambinello, ed era un bene che mi piacesse, perché per lunghi anni sono stato il secondo ballerino di mia zia, l’obbligato. Era così a quel tempo di miseria e ignoranza nei paesi campagnoli, che una ragazza di diciott’anni non andava a ballare da sola senza difesa e sostegno, e così lei mi portava al cinema allo spettacolo delle due e io la portavo a ballare al matinée delle quattro, e me ne stavo buono seduto nella lunga fila di sedie appoggiate al muro destinate alle ballerine, i ballerini stavano in piedi in mezzo alla sala a ronzare come calabroni, me ne stavo tranquillo con un sacchetto di duri duri da succhiare a sentire la musica e a aspettare i pretendenti della Cesarina, e se ce n’erano che non erano di gradimento, lei diceva, no grazie, ho già il cavaliere, e mi prendeva e mi portava nella pista a ballare con lei. È così che sono diventato un gran ballerino di standard, e so fare dal fox trot fino alla polka e al valzer parigino. Chissà cosa ci ha trovato in quel polesano la Cesarina, era come tutti gli altri e aveva i capelli corti come quelli che vanno militare; a me non mi ispirava, non fin ché ha preso a mettermi in mano una bottiglietta bella fresca di aranciata. Non sono sicuro di questo, ma credo che sia passata tutta l’estate e abbia dovuto aspettare anche un mesetto buono di quella dopo prima che la Cesarina gli abbia detto di sì, che avrebbe ballato con lui, Umberto era davvero un gran ballerino. E l’anno dopo c’è stato il fidanzamento, in casa nostra, con i ravioli e l’agnello fritto e la torta con la crema e l’alchermes, e dopo altri tre anni il matrimonio, con la gallina ripiena e la torta a tre piani e i confetti per tutto il paese che era lì, davanti alla chiesa a vedere il polesano e la Cesarina che si sposavano. Io ero già un ragazzo e certe cose le capivo, l’avrei capito se qualcuno avesse avuto qualcosa da ridire, ma lì alla chiesa e poi sulla strada davanti a casa dove gli sposi si sono fermati per dare i confetti a tutti quelli che passavano, ricordo che la gente aveva un’aria così, come se si sentisse sollevata dal fatto che in fin dei conti era un bel matrimonio, bella la sposa e bello anche lo sposo, bisognava dirlo, brutto non era; del resto quel polesano era un lavoratore, lavorava alla fornace e prendeva la busta paga ogni quindici giorni, piovesse o ci fosse il sole, cosa che i contadini se la sognavano. E poi le cose hanno preso per il loro verso, nella cascina dei polesani adesso nei fondi c’è un grossista di sanitari e di sopra ci vivono gli albanesi che lavorano alle serre del basilico, e in via dei Cento Tetti ho contato cinque case con i cognomi polesani nella cassetta della posta; Umberto e la Cesarina vanno ancora a ballare perché al paese c’è ancora la sala del Mutuo Soccorso, lo fanno anche se lui ha la cataratta e lei bisogna che si decida e si faccia la protesi all’anca, vanno a ballare con il loro bel vestito da ballo, che è un po’ come un vestito da sposi.