C’è stata quando ero ragazzino alla radio e su Sorrisi e Canzoni quella tettona con quelle gambone che la facevano alta come un albero e la fronda dei capelli come la chioma di un platano a primavera, c’è stata con quel nome da fumetti, i suoi occhioni tutti pitturati, le sue labbrone e quelle canzoni matte con le zebre, le bolle e tintarelle color latte. C’è stata mentre mia madre faceva andare la macchina magliatrice, e non c’era verso che riuscisse a impararle a cantare quelle canzoni, due o tre parole e quella si metteva a urlare, era il tempo che ancora si cantava lavorando, ma per farlo necessitava la melodia. È passato il tempo, e poi c’è stata una fotografia non so dove di un volto reclinato nell’ombra di due enormi occhiali scuri. E da allora cos’è Mina? È dolore e malinconia, siccome una canzone può essere tragica, è la faccia più tragica della canzone, sugli occhi il velo di tutti gli amori spergiurati e perduti. E quando ho bisogno di ricordarmi di aver fatto la mia parte come pusher di dolore, mi canto ma a guardarti così da vicino con il sonno che ti da quell’aria da bambino, perché so che ce l’ha anche con me, e la colpa di quegli occhiali è anche mia. Il suo leggendario sovracuto? il suo richiamo di sovrumana pietà.