Romagna di mare; Pinarella, Zadina, Tagliata, Valverde, Villamarina, San Mauro, Gatteo, Igea, il mare del popolo, il popolo ai bagni. I contadini delle pesche in braghette, i congegnatori del medicale in boxeroni, le commesse della coop in quasi tanga, le azdore con la quinta al petto, i ragazzini arruffati, rissosi e giocondi, l’ombelico intasato di sabbia, le Barbie col topless, biciclette adattate al trasporto merci, le Panda con i rimorchietti, sdraie, seggioline, tavolinetti, ombrelloni e tendaggi, borse frigo, barbecue a rotelle, pignatte a tenuta, tre metri di salsiccia, una pila di piadina, cappelletti al ragù, salvagenti, palle e palloni, mazzi di carte e racchettoni. E la spiaggia, il lindo e innocente deserto che non finisce né di qua né di là, ma solo al mare laggiù, il mare che ha un fremito, forse è un’onda, un’anomala di un palmo, forse un pescecane di gomma. Nel mare il popolo di rinfresca e si sazia di infinito, il popolo in migliaia disseminato con l’acqua alla cintola a contemplare assorto, lo sguardo immoto all’orizzonte, c’è chi fa pipì, i più arano con i piedi la sabbia in cerca delle pavarazze, le poveracce, le vongole di Romagna, se ne fanno secchielli per sbatterle in padella quando annotta; allora ci saranno discorsi, memorie e vaticini, anguria quasi gelata e partite a beccaccino con coltello in mano. Meriterebbe di più il popolo, ma alle ferie di Augusto non di meglio, e il culturame dovrebbe farci almeno una settimana di campo scuola all’anno su questa riviera per constatare e apprendere che c’è ancora vita sul pianeta Terra, te lo do io Varigotti. Infatti io ci vado là a quel mare d’oriente, e me ne torno all’occaso Tirreno che sono rifiorito nei miei più lusinghieri propositi. In verità mi allontano per tempo dalle spiagge, e nel torrido della controra approfitto del di più di Romagna, mi inabisso nella campagna, in bicicletta. Di qua dalle spiagge, fin oltre l’ultimo orizzonte si sparge e si dispiega la terra della centuriazione, la piana spartita in premio di liquidazione tra i legionari reduci dalle conquiste imperiali, affettata a precise losanghe in migliaia di modici poderi, lì strade, stradelle e carrere sono tutte rette intersecanti; lì ci si confonde, chi va per il mondo lo sa, è nel diritto che ci si perde. La campagna centuriata d’estate, madida e rovente, esala i suoi afrori in refoli stordenti, il canto delle cinciarelle e della cutrettola, il ticchio snervante del picchio, il cicalecciare delle suddette ipnotizzano, le chiome delle pioppe abbagliano, si va come vagando in sogno. Case disperse, case minime di braccianti, casolari appagati di chi è possiede la terra che lavora, ognuna con la sua quercia che le ombreggia l’aia, ognuna con il suo filo di lenzuola e mutande a asciugare, una villa, un possidente asserragliato oltre la muraglia di immensi cedri del Libano, borghetti appisolati attorno a una brutta chiesa contadina e un brutto circoletto del picì, tenerezze di porte con la tenda a righe bianche rosse, dolcezze di petunie e gerani, un commestibili tabacchi e giornali appena chiuso ma riapre tra un po’, Capanni, Bagnarola, Pavirana, Casetti, Verzaglia, Fiumicino. Qua e là ci trascorre il fiume Pisciatello, per far contenti i suoi vecchi compagni di Romagna, il duce l’ha cambiato in Rubicone, così che sul ponte di Savignano non più sul Pisciatello impera la statua di Gaio Giulio Cesare che se la mena con i dadi in mano. Pura bellezza, bellezza buona. E l’epicentro, il maelstrom, il vortice magnetico di tutto questo meraviglioso niente è Gambettola, la capitale; se ti perdi non c’è strada che non ti porti a Gambettola, magnate metallurgico che non ricordi la sua infanzia a Bulgaria, frazione di Gambettola, ferramenta che non sogni una fattiva maturità gambettolese. Perché, tra il suo molto, Gambettola è leader mondiale del ferrovecchio. Un tempo a Gambettola non c’era che guerra, lì si era insediata la Linea Gotica, fronte di pianura, teatro di grandi battaglie di terra e di cielo, carneficine di uomini, olocausto di mezzi. Finita la guerra rimasero i superstiti, un piccolo popolo a mezzo tra puri celti e puri zingari, tutti puri morti di fame, per loro non c’era più niente, se non i resti, e i celti contadini e gli zingari lattonieri ci pensarono su e con i resti edificarono un trionfo. Carrarmati trasformati in ruspe, camionette in trattori, blindature in aratri, spolette in fil di rame, motomitragliatrici in moto sidecar, obici da assedio in fresatrici, moschetti Shefield in fucili da caccia, pistole Mauser in pistole Mauser, e viti, bulloni, oring da 3/8 a 7 pollici, chiavi serranti, dinamo, bielle e pistoni, bossoli in rame, proietti in piombo e camicia d’acciaio, ferramenta tutta buona per l’eterno fabbisogno che c’è di tutto in tempo di pace. E nel tempo e nell’ingegno Gambettola s’è costituita nel più grande mercato d’Europa di ferrivecchi, la culla del pezzo mancante, l’alcova dell’introvabile. È noto che ai tempi d’oro del collezionismo elegante, l’amatore poteva prenotare un caccia Hurricane completo e in buone condizioni, un Ferguson spazzamacerie da 25 tonnellate, ho un vicino di ombrellone che s’è portato a casa tre cannoni 104 da campagna, se li è messi nel giardino, sono puntati su Roma, ho ragione di pensare che siano mancanti dell’otturatore. Nella mia modestia, mi son portato via un pistone per la Vespa 90 super sport, pezzo unico al mondo. Dico tutto questo parlo perché Gambettola non la guasterete, là ci si arriva solo se ci si perde, solo per appuntamento con la fatalità.