Al mio paese c’è un posto che si chiama La Miniera, lì nel tempo andato c’era un a miniera di lignite. Era una piccola miniera, rendeva poco ma qualcosa rendeva e quando io sono nato ci lavoravano cento uomini del paese, più una donna; la donna era in ufficio e teneva i conti e tutto il resto per tirare avanti con qualche guadagno senza che gli uomini si dovessero ammazzare di lavoro. La donna si chiamava la Elsa e era stata un comandante partigiano, molti dei minatori erano sati in montagna ai suoi ordini. La lignite non valeva un granché, e la miniera andava avanti perché la gente non aveva di meglio per scaldarsi e mettere al fuoco le pentole, del resto se stava ancora in funzione era perché, finita la guerra, il paese l’aveva riscattata dai vecchi padroni e s’era fatta una cooperativa. C’era un fratello di mia nonna, Girolamo, Girò, che lavorava alla miniera, era un carichino, l’uomo che disponeva le cariche di dinamite e le faceva brillare negli avanzamenti, un lavoro di grande responsabilità. Girò è morto vecchio e magari non sarebbe neanche morto se non avesse avuto la silicosi e non ci avesse fumato sopra per tutta la vita un pacchetto di trinciato al giorno e bevuto un fiasco di vino a pasto. Io me lo ricordo; non era molto alto, quelli alti non sono adatti alla miniera perché finivano sempre per sbattere la testa da qualche parte, ma era massiccio da non dire, sapeva sempre di tabacco e di sudore; portava il cappello in testa anche quando mangiava perché al posto dei capelli aveva tutta una cicatrice e mia nonna diceva che a vederla quella sua testa sembrava una verza, lui che era nato con i capelli tutti ricci. Quando è saltata in aria la miniera è uscito fuori con la testa in fiamme. Correva nudo mentre la testa gli bruciava. Io ero troppo piccolo e non ho visto niente, ma mia nonna me ne ha sempre fatto un gran parlare di mio zio Girò e degli altri uomini che uscivano dalla miniera tutti nudi e in fiamme, e dei due uomini che sono rimasti dentro, morti che non li hanno nemmeno potuti riconoscere. Lei voleva molto bene a suo fratello che non si era mai sposato, e ogni giorno gli portava da mangiare al lavoro, anche il giorno che la miniera è saltata in aria a causa del grisou, così diceva che come Girò anche lei era viva per miracolo della madonna della Guardia. Solo che di miracoli della madonna non ne poteva parlare quando suo fratello era in casa, Girò era anarchico e non credeva nei miracoli, anche se lei non ci vedeva quel dissidio tra la madonna della Guardia e l’anarchia, visto che quello che faceva la madonna era di salvare gli operai e i contadini dalle loro disgrazie, i signori avevano delle altre madonne. Lo zio Girò mi aveva in simpatia e quando veniva per pranzare con noi mi portava sempre qualcosa, noci, mele candite, elastici di caucciù per le fionde, poi mi prendeva da parte e mi cantava una delle sue canzoni anarchiche, qualunque fosse la canzone finiva sempre con ed urla col suo schianto redentore la dinamite. A mio padre la cosa non piaceva un granché, s’era fatto socialista e il socialismo non faceva affidamento sulla dinamite, però aveva un gran rispetto per quell’uomo e per i suoi compagni minatori. Anche lui mi raccontava della grande tragedia della miniera e di quegli uomini che scavavano nudi il carbone che non rendeva più di un po’ di minestra, lo faceva per rimbeccare mia nonna, perché neanche mio padre credeva nei miracoli. Quando poi ce ne siamo andati in città, Girò è venuto a salutarmi e mi ha lasciato in regalo la sua lampada da minatore, con la fascia di cuoio che sapeva di sudore e il serbatoio dell’acetilene pieno; l’ho sempre tenuta da cara e da qualche parte deve esserci ancora, se la trovo sono sicuro che funziona ancora, l’acetilene è eterno, la luce dell’anarchia non si spegne mai. In città, al compimento del mio quattordicesimo anno di età, mio padre mi ha regalato la tessera della biblioteca del dopolavoro dei ferrovieri. Mio padre era un operaio che leggeva molto, leggeva la domenica e ogni notte, libri dei suoi e libri che prendeva alla biblioteca, aveva in gran stima i ferrovieri e i libri che leggevano. A me piaceva leggere, veniva bene in città dove soffrivo la solitudine dei campagnoli inurbati, e il patto tra me e mio padre era che ogni libro che sceglievo io ce n’era uno che mi sceglieva lui. A me piacevano i libri avventurosi, lui mi metteva in mano un libro e mi diceva, anche questa è un’avventura; io prendevo a leggere e vedevo presto che non erano avventure come intendevo io. Uno dei primi libri dei ferrovieri che mi ha dato mio padre era intitolato I Minatori della Maremma. Mi ricordo che quella volta io mi ero preso un bel libro a colori di avventure subacquee, lui mi dà il suo e mi dice, leggi, qui dentro c’è anche tuo zio Girò. Non era vero ma quasi. Per un ragazzino, seppur solitario, c’era tutta una parte davvero barbosa zeppa di numeri e roba tecnica, ma poi c’era la miniera, c’era il grande scoppio del grisou. C’era la Miniera, c’era Girò, lui e i suoi compagni. E chi erano, e come vivevano, vivevano come avventurieri di tremende avventure. C’era solo una gran differenza, sembrava che nelle miniere di Maremma non ci fossero anarchici, ma solo dei gran comunisti. Per dare man forte a Girò e dar contro a mio padre riformista, mi sono fatto anarchico anch’io.
Ecco, ho raccontato tutto questo perché nei giorni scorsi è occorsa una singolare coincidenza. C’è stata la terza puntata della serie Cernobyl e una telefonata da questo giornale. Cernobyl è quello che è, il solito capolavoro un po’ difettoso, ormai per piangere e gioire, conoscere e stizzirsi bisogna buttarsi con Murdoch; nella terza puntata, alla disperata, arrivano i minatori. Eccoli lì, Girò e i suoi compagni, grossi ma non troppo alti, sporchi e sfottenti, buoni e severi, anarchici che i burocrati del partito gli fanno una pippa, votati al tragico bene, non credono ai miracoli. E nudi. Picconano nudi nel fondo dell’inferno atomico, ne vengono fuori che non gli bruciano i capelli, ma la pelle fino alla carne, nella faccia, nelle mani, nel torso. E poi il telefono, hanno ristampato I Minatori della Maremma, caso mai ti interessa. Se mi interessa? La copia che ho in casa porta il timbro Ministero dell’Interno Casa Circondariale. Quel libro è un reato, premesso che quando è stato prelevato alle guardie non gliene fregava niente dei libri di proprietà statale, è stato sottratto alla biblioteca di un carcere. Mea culpa, strano però che ci fosse un libro francamente sovversivo a disposizione dei penitenti, chissà chi era mai il funzionario che lo ha scelto. Comunque io ne avevo bisogno, ne ho bisogno ancora adesso. Ho bisogno di quel libro e di chi l’ha scritto, ho un bisogno sempre urgente di Luciano Bianciardi. Lo so che faccio un torto al suo compagno, a chi l’ha scritto con lui, Carlo Cassola che era oltretutto un brav’uomo, ma tant’è, è a lui che penso, è lui che chiamo ogni volta che mi tornano in mente, e succede non di rado, Girò nudo con i suoi capelli in fiamme, lui e i suoi compagni della Miniera e i fratelli minatori di Maremma morti nel pozzo Camorra di Ribolla, lui e tutti gli altri, quei molossi ucraini bruciati di plutonio, i milioni di cui non so niente ma che pure sono stati, che continuano a essere. Ho bisogno di Bianciardi perché porto nel cuore il tremendo peso di una cassetta di candelotti di dinamite e lui sa che peso è. Il peso di una giusta vendetta che non sarà mai. Il mandato dell’anarchia è mettere sotto il culo del re quella cassetta, ma l’anarchia è una lampada ad acetilene e il re è furbo, il re, il re delle miniere, il re del profitto, il re della guerra, il re della servitù, il re di tutto, è nascosto ben oltre il suo cono di luce. Bianciardi di quel peso ci si è ammazzato e io sono ancora qui, ma non perché abbia trovato il re e fatto il mio lavoro, il re è sempre più in là nella tenebra. Il fatto è che diversamente da Bianciardi sono un anarchico all’acqua di rose, assomiglio più a santa Maria Goretti che a Marcello che parte dai bruciati di Ribolla per la sua vita agra con la cassetta di candelotti nella valigia. Bianciardi era un uomo tutto d’un pezzo e non ha mai ceduto di un passo alla consolazione, io sono facile a consolarmi. Mi basta mettermi lì a cantare a squarciagola Urlan l’odio, la fame ed il dolore da mille e mille facce ischeletrite ed urla col suo schianto redentore la dinamite.