Mio padre non la sapeva, non me l’ha mai cantata. Mio padre conosceva tutte le canzoni del mondo e me le ha cantate tutte, Bella Ciao mai. Mio padre era un canterino, lo sono diventato anch’io, come se ci fossi andato a scuola. Mio padre mi metteva a letto e diceva, dì una parola, una qualunque, io cercavo una parola, anche la più scema che mi veniva in mente, e lui ci trovava la canzone. Lo so fare anch’io, è un bel gioco, lo so fare anche con i nomi; è incredibile, ogni nome ha la sua canzone, e le persone sono contente di sapere che c’è una canzone apposta per loro, proprio non immaginano che ci sia così tanta musica per tenere su di morale le parole, e le vite che le abitano. Mio padre cantava, fischiettava, zufolava, mormorava musica dappertutto, anche per strada, e mia madre si scocciava, allora lui faceva un sorriso birichino e diceva, cuor contento il ciel l’aiuta. È vero, se non avessi da cantare su ogni cosa sarei l’uomo più avvilito del mondo, per fortuna che ho un repertorio infinito, c’è tutto il lascito di mio padre e la mia vasta carriera canora, che è stata, naturalmente, anche una significativa carriera politica. Anche quella di mio padre lo è stata, infatti conosceva tutte le canzoni fasciste e tutte le canzoni socialiste, tutte le canzoni di guerra e tutte quelle partigiane. Perché mio padre questo è stato, un giovane fascista, un soldato, un fervente socialista e un partigiano; il fascismo gli ha dato la scuola operaia e l’ha mandato alla guerra, la guerra gli ha insegnato il socialismo e il socialismo la resistenza. Ma anche se la sua vita è stata piena di prima e di dopo, le canzoni sono rimaste, e c’erano canzoni fasciste e canzoni guerresche che lui mi cantava assieme a quelle socialiste e partigiane, perché in effetti non erano brutte canzoni. Ce n’erano che mi facevano piangere di commozione, indistintamente, perché non è che lui mi dicesse, attento, questa è una canzone dell’orrido fascismo e questa dell’eroico socialismo; ad esempio le canzoni del figlio del soldato e del figlio del prigioniero. Il figlio del solfato scrive al suo papà una lettera: caro papà ti scrive la mia mano, il cuore trema e io non so perché, la le lacrime che bagnano il mio viso son lacrime d’orgoglio credi a me. E il figlio del prigioniero: all’angolo della lurida galera, il figlio dell’ergastolano sta, muto invoca Lenin con la preghiera che gli riporti a casa il suo papà, sì grida il bambino sì, verrà Lenin, perché Lenin soltanto riporta l’innocente al suo piccin. Come avrei non potuto versare lacrime; anch’io ero orgoglioso del mio papà che era sempre lontano a lavorare come se fosse in guerra, era lo stesso mio papà che i fascisti lo volevano mettere in galera e poi fucilare. Per non dire della malinconica fierezza che mi induceva a un solitario eroismo, addobbato con l’agognato costume da cow boy e armato di un prezioso fuciletto a tappi, al canto tragico di: colonnello non voglio il pane, voglio il piombo pel mio moschetto, ho la terra nel mio sacchetto che per oggi mi basterà. Con il dubbio, infantile ma non del tutto inconsistente, che la terra nel sacchetto servisse al coraggioso soldato per autoseppellirsi.
E in tutta questa enciclopedia canora, Bella Ciao mai. Bella Ciao l’ho imparata che avevo tredici anni, l’ho imparata proprio assieme a mio padre, almeno mi è sembrato che mio padre la imparasse assieme a me. Certo che me lo ricordo, è stato la prima volta che mi ha portato alla sfilata della Liberazione, il 25 Aprile 1964, era già tempo, volendo, di prepararsi all’esame di terza media. Mi aveva fatto allestire da mia madre, mettilo come si deve, camicia bianca e farfallina, giacchetta e calzonetti blu della prima comunione, gli ha fatto togliere i calzonetti e mia madre è andata a prendere i pantaloni lunghi con la risvolta che erano stati messi da parte per l’esame, anche le scarpe erano per l’esame, i mocassini con la nappina marron; certo che mi ricordo, mio padre sembrava uno sposo. Tutti quanti sembravano degli sposi e delle spose in festa per le vie della città, eleganti e profumati, impettiti e sorridenti, era la festa più grande della Repubblica; dai fili della tranvia sventolavano centomila bandiere tricolori, dai marciapiedi le ragazze con il fazzoletto rosso lanciavano sulla sfilata a piene mani garofani dello stesso identico colore, tutti avevano un garofano all’occhiello, mio padre ne ha raccolto uno anche per me. Davanti a tutti gli eroi della libertà portavano bandire così cariche di medaglie che nemmeno il maestrale riusciva a spolverarle. E la banda, una banda musicale spropositata, fatta di tutte le bande della città, con certi clarini più piccoli di me e i bassotuba avvinghiati come il serpente di Laocoonte a dei giganti con il fiato potente come il vento. Nel mezzo della banda un camion tutto coccarde e corone di fiori, e sul cassone il gran coro della Libertà che cantava tutte le canzoni che mi aveva già cantato mio padre, compresa quella del battaglion Lucetti, che son libertari e nulla più, il suo battaglione; mio padre cantava con il coro e io con lui, era così bello da farmi venire il languore allo stomaco e dappertutto. Poi è venuta questa Bella Ciao mai sentita, e mio padre cercava di seguire le parole, che non gli venivano tutte, così che bisbigliava appena, e io con lui. Era così diversa, sembrava quasi una canzone romantica, e anche un po’ melanconica, non triste, melanconica, melanconica come le canzoni d’amore, anche se lì per là sembrava allegra; sì, infatti alla fine della canzone i partigiani non vincono mica. Quel 25 Aprile a casa di Bella Ciao mi soin portato il fiore, il fiore del partigiano morto per la libertà, e l’ho messo dentro un gran campo pieno di fiori che coprivano appena il corpo un soldato giovinetto, forse era un film perché i fiori erano meravigliosi ma in bianco e nero, così come il giovinetto e tutto quanto. È questo è quello che ancora rimane. Non la canto spesso, non è una canzone che è bello sentirla cantare dai vecchi, è una canzone che è bene che cantino quelli che possono dire bella ciao, e bella è una ragazza, bella è la vita, bella è la gioventù, e salutarla con un ciao allora è davvero romantico e sconvolgente; solo i ragazzi sono credibili quando prendono la loro vita e la gettano nel fuoco della Libertà con un ciao. Ma quando la canto, lo faccio sempre per quel fiore, quel meraviglioso fiore in bianco e nero e per quel soldato giovinetto. Si canta ovunque nel mondo, del resto e è sempre stato così, sin da quando fu cantata per la prima volta, che si sappia, al primo incontro mondiale della gioventù, nel ’47, nella Praga della terza repubblica, giusto un anno prima del colpo di stato del partito comunista. Quando la cantano i ragazzi è sempre bello starla a sentire, con le sue prime o con le parole che ci vogliono mettere a piacere, ma se devo dire, mi sono commosso un’unica volta in questi anni; è stato quando un giovane che sa di dover morire arma il suo UZI, saluta la donna che ama con qui si fa la resistenza ragazzina, e comincia a sparare contro l’esercito dell’oppressione, mentre, prima mormorate e poi eclatanti lo esortano la musica e le parole di Bella Ciao. Ma questo è il finale di una serie TV, e la cosa mi dà da pensare.