Ho la mia casa in piazza delle Vigne, il forno in vico dell’Amor Perfetto, la farmacia in via della Posta Vecchia, il supermercato in Canneto il Curto, e fin qui vado spedito nel persistere delle ragioni pratiche della mia città, ma quando salgo per via Cairoli verso largo Bezzecca, e di lì per piazza Mentana su per via Ugo Bassi per tagliare in piazza dei Martiri, allora rallento e ai cantoni mi vien voglia di alzare gli occhi dal marciapiedi su per i muri fino alla targa, lì dove appiccati alla pietra ci sono nomi che un tempo la città ha ritenuto memorabili e ora vanno sfarinandosi nella materia del niente; la pietra conserva la morte non conserva la vita, se qualcosa ancora vive è nello sguardo di chi alza la testa ai cantoni, e ricorda, e porta memoria. Mi ha insegnato mio padre a leggere le targhe delle strade prima ancora che imparassi a leggere a scuola, io sillabavo e lui raccontava; se ne faceva una passione, soprattutto quando andavamo in gita e le targhe portavano nomi di uomini mai prima sentiti; le passioni non passano invano, e io ancora adesso sillabo e racconto, mio padre non c’è più ma la mia voce è la sua.
Via Antonio Meucci, 1808-1889, inventore e patriota, Lugo di Romagna, RA.
Lugo a un palmo sopra il mare gongola nella calura torpida che gli vaporano intorno i canali, nella piazza l’ala di Baracca si inerpica nell’aria color gelato al limone, è quasi mezzogiorno e nel mercato le pesche grosse come bocce da petanque sono scese a un euro e cinquanta, chiedo di via Fermi, c’è della strada da fare. Periferia industriosa di Romagna, odore di caramelle, alta tensione e sottaceti, via Fermi fa angolo con via Meucci non si può sbagliare. E mi confondo invece, perché via Meucci sono tre strade che stringono a ferro di cavallo quel poveraccio di Fermi, nel giuggiolone del repubblicanesimo irredento, Meucci vale tre Fermi. Meucci, patriota inventore.
Meucci è nato da un brav’uomo di San Frediano, e non era che un bravo ragazzo con lo sbuzzo per l’arte e la meccanica, se lo avessero lasciato in pace se ne sarebbe restato buono a pitturare fondali e inchiodare cantinelle nei bei teatri fiorentini. Ma s’era nel tempo della Restaurazione, la Restaurazione si nutriva di paranoia e non lasciava per principio in pace nessuno, cosicché non aveva ancora quindici anni che prese confidenza con la scodella del pane annacquato delle sue patrie galere, e perché aveva pasticciato con dei fuochi d’artificio, o perché s’era dimenticato di andare a lavorare, o perché era stato di mano lesta con una ragazza lesta anche lei. E sarebbe rimasto un bravo ragazzo anche a pane e acqua, senonché nei suoi giorni le galere erano zeppe di rivoluzionari e rivoltosi, i carbonari, i deputati delle passate repubbliche, gli ufficiali napoleonici; le galere d’Italia erano una vasta ed efficiente scuola quadri, a vent’anni Meucci era già formato militante della Giovane Italia e contumace, essendo ragazzo vivace oltreché sveglio, prima di tagliare la corda per le Americhe se n’è andato dall’intendente di polizia di San Frediano a strappargli sotto i baffi il bel ritratto del granduca. È partito per Cuba con una compagnia di teatro d’opera, al pari della galera, il teatro era politicamente mal frequentato. Siccome il viaggio per mare lo annoiava, passava il tempo a fantasticare cose mai viste.
Lo sanno tutti che ha inventato il telefono, lo sanno anche gli americani; già, gli americani, che a breve termine hanno la memoria lunga ci hanno pensato su cent’anni ma infine hanno proclamato al mondo che il telefono è di Meucci e Bell è stato solo una meritoria iena del capitalismo di rapina. Ma sì, ha inventato il telefono, l’ha fatto senza intenzione, cercava una cura elettrica per l’artrite di sua moglie e trafficando con i fili, le batterie e gli isolanti di cartone ha sentito qualcosa, ha lasciato perdere per un po’ l’artrite e ha fatto il primo telefono; Meucci aveva il telefono in casa già nel 1860 e lo usava per parlare dal laboratorio con sua moglie che continuava a starsene a letto invalida, la cura per l’artrite non l’ha mai inventata. Ma con il senno del poi non è che come invenzione sia stata la sua opera più grande, per inciso da ragazzo aveva già inventato l’interfono a tubo; tanto per dire ha inventato la gazzosa, anzi, meglio della gazzosa, ha inventato la bibita frizzante arricchita di vitamine; ha anche inventato i sughi pronti in scatola, e forse una bella pastasciutta e una bottiglia di aranciata fresca sono meglio di un telefono in tasca. Questo è stato il suo periodo creativo gastronomico, breve; in verità aveva già salvato l’Avana, Cuba, dal colera inventando i filtri per l’acqua, la caraffa che ho qui davanti con il filtro che mi risparmia dalle coliche renali bisognerebbe chiamarla caraffa Meucci. E a Cuba aveva inventato anche un sistema moderno e igienico per la conservazione die cadaveri; sembra una cosa da poco, ma gli immigrati nelle americhe bramavano più di ogni altra cosa essere seppelliti a casa loro, le celle frigorifere erano ancora di là da venire e le spoglie mortali dovevan far viaggi per mare lunghi settimane. Ma forse anche questa è una delle sue idee minori, come in fin dei conti la galvanizzazione dei metalli, la zincatura, il trattamento antiruggine per capirci, o la carta da giornale che non si inzuppa quando piove; la grande idea che gli ha dato a lungo da vivere gli è venuta andando per mare da Cuba a New York, la famosa candela stearica di Meucci. Quanti miliardi di miliardi di candele meucciane si sono vendute nel mondo a un centesimo l’una e ancora da qualche parte si vendono, nei santuari di sicuro. La genialità della candela di Meucci è che non fa fumo, non ammorba l’aria, non affumica le pareti e non deturpa i volti dei santi e dei cristiani in generale, e in più dà il doppio della luce della concorrenza; s’era nell’esatta metà dell’ottocento, le candele facevano andare il mondo e Meucci ci mise su una fabbrica, avrebbe potuto diventare il magnate globale della stearica. In effetti Meucci era di una genialità così multiforme e pratica che avrebbe potuto diventare qualunque cosa nel genere dei brillanti fondatori di imperi industrial, ed è diventato un vecchio che è potuto morire nella sua casetta di Staten Island, l’isola ai margini di New York, il primo ghetto degli immigrati italiani, solo perché chi gliela aveva pignorata era persona di cuore gentile. Non che a Meucci non piacesse fare soldi, è che quel che gli piaceva più di tutto era la repubblica e la fratellanza, la repubblica in Italia e la fratellanza nell’universo; e quel che aveva lo spendeva per quello, così che non gliene rimaneva per brevettare o rinnovare i brevetti, non ne aveva abbastanza per pagarsi i consulenti per brevettare al meglio, non ne aveva per i funzionari e gli avvocati, per comprarsi un equo giudizio. Spendeva e spandeva per la rivoluzione italiana, sosteneva la rivoluzione di Mazzini e finanziava la Giovane Italia, aderiva alla rivoluzione di Garibaldi e gli comprava i fucili, nella sua fabbrica di candele, nella sua birreria, nel suo ristorante di specialità fiorentine, nel suo laboratorio, ha dato da lavorare agli esuli di tutte le battaglie perse, dalla Repubblica Romana a Mentana. Si sa che il generale Garibaldi, quando ha riparato a New York dopo la fine della Repubblica Romana, s’è guadagnato da vivere fabbricando candele meucciane, si sa che Meucci se l’è tenuto in casa come un fratello, e così adesso quella casetta di Staten Island è il Garibaldi’s and Meucci’s museum. Ci sono poche cose, le solite cose che il Generale lasciava qua e là per il mondo, ma una è commovente e unica. È la bandiera di battaglia del 39° reggimento New York, la mitica, per i newyorchesi, Garibaldi Guard, che si è battuta con grande onore nella guerra di secessione, naturalmente al fianco degli abrogazionisti. È un tricolore con nella banda bianca la scritta Dio e Popolo, è la bandiera della Repubblica Romana; il 39° era composto di esuli politici italiani, rivoluzionari repubblicani, le divise e i moschetti ce li ha messi Meucci, la bandiera Giuseppe Mazzini, l’addestramento il Generale.