Il 25 Aprile si scrive ancora maiuscolo, è l’anniversario della Liberazione del paese dal nazifascismo, la Nazione è in festa, da qualche parte è in festa, per come vuole, per come può.
Io non credo alla memoria affissa nella pietra, detesto monumenti, lapidi e targhe. Non c’è vita nella pietra, non ce n’è nella lingua forbita delle epigrafi, è materia fredda, è rigor mortis, inani come sono, nel tempo vengono bene per pisciarci contro o insozzarle di immonde parole spray; la memoria è vita, la memoria è plastica, è in continuo, magmatico movimento, è voci, è corpi che vivono nella vividezza dei loro racconti. Eppure, a capo del letto dove dormo e non di rado mi agito, è appesa la fotografia di una lapide. È una piccola pietra sul ciglio di una strada tra due splendidi olmi, gli olmi sono molto rari qui da noi, una malattia ferale li ha sterminati decenni fa, vederne due così floridi e gemelli è un miracolo; ai lati della lapide due siepi di antiche rosse rose, alla base vasetti di marmellata colmi di fiori selvatici, pervinche, fiordalisi, narcisi, qualche papavero. La lapide la conosco bene, non mi serve più guardarla per scoprire che sopra ci sono le fotografie racchiuse in ceramica ovale di cinque combattenti per la libertà fucilati su quel ciglio a ottobre del ’44. C’è scritto così, fucilati. C’è scritto così, combattenti per la libertà. Il più vecchio era un padre di famiglia, il più giovane era il figlio del padre di famiglia. Li conosco, mi sono stati raccontati, nessuno di loro era alla macchia, erano contadini che davano qualcosa da mangiare e qualche straccio da coprirsi ai partigiani, un paio, feriti, se li erano nascosti nei pagliai. Conosco chi li ha giustiziati, una squadra della Milizia capitanata dal maestro della scuola che è a mezzo chilometro da lì; era un giovane uomo di inaudita ferocia, alla Liberazione è fuggito in bicicletta fino a Roma, a Roma si è rifugiato in territorio vaticano dove ha vissuto e insegnato fiero e impunito tutta la vita, finché il suo Dio, che lì è di casa, non se l’è preso tra lo sgomento degli amatissimi figli e nipoti. Quella fotografia mi parla, è viva, come è viva la pietra di via della Pergola. Vive perché è un racconto che si va tramandando, e se anche uno solo tra chi ora sta leggendo, ne porterà memoria e ne farà racconto, vivrà chissà quanto lontano da qui; e vive finché sarà vivo chi accudisce e ravviva i magici olmi gemelli, le rose, i fiori selvatici, la pietra e le sue immaginette, la scritta, e nel farlo avrà una storia da raccontare a chi passa.
Io ho conosciuto chi accudisce quella lapide. Era un aprile ancora libero dall’infezione, me ne andavo in bicicletta a godermi la delicata primavera di collina, giù per la discesa della Pergola mi sono inchiodato sbandando di lato per stare a guardare. A guardare il prete di lì e una vecchia inginocchiati su una lapide piantata sul ciglio della strada e darci di straccio e sapone. Darci e darci a farla come nuova, a far brillare i cinque fucilati. Il prete, lo so, non li ha conosciuti, è vecchio, ma è vecchio di solitudine, lui è nato dopo la guerra; forse li ha conosciuti la vecchia, forse lei era una bambina nell’autunno del ’44, forse era lì a vederli sparare, forse era in casa e ha sentito i colpi. Forse non li ha conosciuti nemmeno lei, e quello che faceva con il prete, quel dare e dare di straccio, poi poteranno le rose, metteranno i vasetti con l’acqua e nell’acqua dei fiori, è solo esercizio di pietà. Da allora, per la vigilia del 25 Aprile ho preso l’abitudine di mettermi sulla bicicletta a fare il pellegrino per i luoghi santi della Liberazione fin dove mi posso sprecare a pedalare. La pietà non basta a una Nazione, la pietà non basta nemmeno alla memoria, ma se passerò domani da quella discesa della Pergola, e se poi da Tebano, dalla Pideura, da Marzeno e da Faenza, e su e giù per gli stradelli e le carraie dal Monticino a Puro Cielo e di lì a Ca’ di Malanca, e giù verso la bassa di Russi fino alle valli delle Terre Basse, lungo quella serpe di spine che fu a quel tempo dei caduti la Linea Gotica, so che sarà tutto un fiorire di lapidi, un profumo di rose, un abbagliare di antichi ritratti d’occasione tra il velluto lucente dei tulipani appena recisi. Qui si usa ancora così, solerti custodi preti e mangiapreti, vecchie e, sì, anche qualche ragazzo; e anche fosse solo pietà, fosse anche solo pietosa memoria, sarà bello, sarà primavera, sarà 25 Aprile. Gli altari fioriti degli eroi. Il canto degli uccelli, il frusciare delle lucertole, il frinire della vespa primaticcia a guardia degli altari degli eroi dell’insurrezione nazionale, gli annunciatori della Repubblica. Sono un bel po’ di chilometri, un culo così, sono i chilometri che non finiscono mai della linea dei rastrellamenti, e delle fucilazioni, e delle impiccagioni, e questo mio giro sono i miei fiori, sono la mia pietà. E non c’è un filo di retorica in tutta questa retorica. Se non altro perché finché quegli altari saranno fioriti non passerò in rassegna delle ceneri ma delle braci. E porterò brace con me, brace viva, ardente e luccicante. Ravvivatori di braci è il meglio che ci possiamo assegnare come compito se ancora nutriamo una qualche remota speranza per la vita della Repubblica. Dico di noi che ci è stato concesso il gran dono di liberarci le mani dalle armi dell’insurrezione nazionale, dico di questa età di smemoratezza, il nuovo nemico che calpesta il patrio suolo, dove non è più una questione di mitra, ma resterebbe pur sempre l’imperativo civile della resistenza. Che non è nelle rimembranze a capo chino, nella deposizione di corone, nel concentramento, momentaneamente nel distanziamento, di gonfaloni e autorità prudentemente disposte sottovento. Queste sono le ceneri, le tristi ceneri.
È festa. La festa della Liberazione è l’allegria di una memoria che arde, e come l’anno passato, anche questo anno l’infezione proibirà l’essenziale dell’allegria e della memora, starcene assieme a parlarci, a toccarci, a ballare, a bere e nutrirci. E mi manca da morirne. Mi manca tornarmene alla montagna, a Ca’ di Malanca, mettermi sulla scia dei ragazzi che in gruppone salgono su in bicicletta verso il caposaldo da cui il primo 25 Aprile i nonni di qualcuno tra loro erano scesi a piedi. Arrivare sfiancato al piazzale tra i pini dove le lapidi sono nascoste da pile di damigiane, i ritratti affumicati dai fumi di braciole, i discorsi autorevoli obnubilati da ogni inimmaginabile variazione del liscio e del rock, del post liscio e del post rock. Quei ragazzi forse sanno, forse non sanno, forse sanno troppo poco, ma quando un vecchio si allenta il fazzoletto tricolore per imboccare la canna e con il suo penultimo fiato catarroso tira su dalla damigiana per fargli un bel bicchiere pieno a tutti quanti, e i ragazzi prendono quel bicchiere tra le mani, c’è come un darsi la comunione. Cristiana, pagana, atea, tutto ma non blasfema. Il vecchio è timido, il vecchio ha paura che sia tutto finito da un pezzo, il ragazzo è timido, il ragazzo ha paura che non cominci niente ancora per un bel pezzo. Sono la Nazione che si passa di mano in mano le braci.