Stazioni (1999)

Si, lo so, mi faccio schifo da solo, ma per tutta una lunga vita raminga io nelle stazioni dei treni mi ci sono trovato a casa. Ce l’ho cercata la casa, lì, e non dico che fosse sempre rose e fiori, ma qualche volta ce l’ho pure trovata. Perché non è che sia necessario essere un eroe, un hobo di ferrovia, per aver bisogno di una casetta qua e là per i binari del mondo, quando la vita ti chiama. E la vita a me mi ha chiamato assai presto sulle principali tratte di questo paese.
La prima ragazza che ho amato al di sopra delle mie forze –e avevo diciotto anni, credetemi- me la sono andata a cercare a Verona. La Spezia-Parma, Parma-Bologna, Bologna linea del Brennero. Mi mettevo in vaggio per andarmela a sbacciucchiare lassù in cima e arrivavo che avevo solo fame di pastasciutta e una voglia di addormentarmi sul suo bel seno che non riuscivo nemmeno a starla a sentire circa quanto mi amava. Così ho imparato a voler bene alle stazioni dove aspettavo le coincidenze, e dopo un po’ erano diventate la parte più interessante di tutta la faccenda. So certi posti di quelle stazioni –sapevo- dove si può preparare un esame di fisica nucleare, dove si può far l’amore, posticini dove si possono raccogliere fiori, preparare adeguatamente rivoluzioni. A Parma, in particolare, a quel tempo la stazione era del tipo a conduzione familiare: calda, generosa, pulita e semplice. Facevo tutte quelle cose un po’ da solo e un po’ con la ragazza di Verona, visto che l’ho convinta a non stare inoperosa ad aspettarmi, ma a scendere giù per la linea e dare al nostro amore un aspetto più moderno. E durata quanto è durata. Intanto avevo scoperto che a Borgotaro il buffet faceva dei panini al prosciutto che non costavano niente e erano buoni da morire. Così ogni tanto mi fermavo a fare merenda alla stazione d Borgotaro, che si era dimostrata la più ospitale in generale di tutta la linea, e infatti la mia prima moglie è proprio di lì. Ma non mi sono sposato la buffettista. Era bella, ma pare che non si concedesse. Mi ricordo che i ferrovieri la chiamavano “pagnottina” e portava sui marciapiedi il suo carretto con grande cipiglio e un bell’accento di montagna. Aveva un cappottone di aatracan e a me piaceva pensare che fosse un trozskista scappato dall’URRS sotto mentite spoglie e che poi si fosse trovato bene così: la taglia, comunque, corrispondeva.
Crescendo, ma non di molto, mi sono trovato a dormire per un anno nella sala d’aspetto di seconda di Pisa. Da mezzanotte alle quattro di mattino, e per dormire in fretta contavo le colonnine della torre di Pisa, appunto, effigiata in gigantografia nella parete di fronte. Era ancora questione di donne, a Firenze, e lavoro mattutino a Spezia. In un buco in fondo al primo marciapiede alle quattro mangiavo con i facchini un piatto di brodo di trippa e un bicchiere di vino per quattrocento lire. Altri tempi; per tutto quell’anno nessuno mi è mai venuto a cercare mentre dormivo o mangiavo o bevevo. Già, altri tempi. Poco fuori da quella stazione dove riposavo così bene, ero solito prendere un sacco di botte dai arà, dai carabinieri, dai poliziotti e da non so chi altri.
Alla stazione di Colle Val d’elsa, sulla linea Empoli-Siena c’era fino a vent’anni fa un albero di nespole, e alla stagione se ne poteva mangiare finché se ne voleva. La prima volta che sono arrivato a Venezia Santa Lucia, me ne sono stato tutto il giorno lì e poi me ne sono tornato tranquillo a casa. Era così bella che mi sembrava una cosa da deficiente andare a infracichirsi d’acqua salmastra in giro per quella torbida città. A Napoli Campi Flegrei c’era un tale che vendeva le malbore a millecinquecento lire e per altre cinquecento ti cantava tre canzoni a scelta tra un vasto e interessante repertorio. A Tremini, verso il binario venticinque, in fondo dalla parte dei grandi scambi ci sono delle casette con pergolato che verso settembre sembra di essere in una pellicola sui bei tempi andati. E se l’uva non se la sono portata via, è anche buona davvero.
Potrei continuare così per cento altre stazioni. L’unica che non ho potuto mai digerire è Milano Centrale: non mi ha mai dato niente, se non brutte cose da vedere.
Ho usato il tempo passato non perché ora non mi muova più per ferrovia. È che adesso le stazioni mi fanno tutte schifo. C’è stato un momento preciso in cui tutto è cambiato. E cominciato con la gestione Necci. Necci odiava la ferrovia e in particolare i suoi clienti, e si è subito visto. Ora le stazioni me e sogno la notte rima di partire. Ed è il solito incubo di merda: mi ricorderò di obliterare? Funzionerà la macchinetta obliteratrice del binario, o dovrò cercarne una fino alla casa del capostazione? Sarà comprensivo con me il controllore quando troverà scarsamente inchiostrato il regolamentare timbrino? Affanculo.
Maurizio Maggiani