Prontuario per la donna senza cuore (Il primo racconto. 1987)

Prologo

 La donna senza cuore venne, palpitò navigante veleggiante nell’aria e se ne andò.
Non lasciò tracce, non ne aveva portate; ad essere sinceri del resto, nulla prima di lei l’aveva pensata o prevista.
Infatti Felice non capì.
Protostoria di Felice

Egli era dunque smangiato da un limo(1) interno.
Aveva comperato una bella giacca di velluto inglese, modello da caccia con toppe e finiture in pelle, e con quella si copriva lo stomaco se gli doleva e andava per commissioni o semplicemente a passeggio in città. Portava con quella giacca la speranza per un buon incontro che ora tardava a venire ma che gli era necessario, proprio necessario. A questo era assai ben disposto, non per niente preferiva accostare alla giacca delle camicie sportive molto ampie e molto quadrettate e dei pantaloni di piloro bianchi tipo marina che dettavano un quadro d’insieme piuttosto allettante nel caso qualcuno l’avesse voluto guardare. Per le scarpe invece non si faceva problemi e aveva quelle che servivano per camminare, così le cravatte e la roba da mettere nelle tasche filettate in pelle della sua giacca. Aveva le tasche sempre un po’ sgonfiotte per le cose che ci teneva, molte cose che lì per lì potevano non sembrare utili ma che sarebbero servite eccome se una sera gli fosse capitato di non tornare a casa (2).
Viveva in un posto dove non era facile starci. Viveva in un posto dove il meglio che poteva capitare era che un giorno o l’altro lo avrebbero ripulito per bene dall’anidride solforosa che promanava dalle quattro altissime ciminiere -alte come una collina, le più alte d’Europa- di una grande fabbrica al centro della citté: era luogo chimicamente inidoneo ad una vita umanamente ricca di spunti e la gente aveva il carattere di chi tira lungo per la strada e si offende per poco e vota le facce che ringhiano.
Ma no! Non proprio così, dai!
Si, certo, per esserci c’erano una quantità di cose difficili da farsi anche per ragazzi volenterosi -perlamordiddio- ma poteva anche essere che di posti ce ne fossero di peggiori. Poteva anche essere che tutto il mondo è paese, già, come nella foja di un’orgia emisferica, dove non era facile starci mai per quelli come quello lì, privo di mezzi e di fortune personali, in perpetuo conto capitale alla locale cassa. Che poi lui e quelli come lui, dalle orge a un certo punto se ne devono andare per mancanza di forza morale, in un inetto spasimo di buon gusto. Che per l’appunto rende difficile starci in qualsiasi località che proprio non sia la casa di mamma se la mamma è proprio buona.
Certo che andandosene a passeggio in giacca e pantaloni pensava tutta insieme una quantità di altre cose e solo di sfuggiata a quanto sopra, e solo in sovrappiù al suo principale limo che a mo’ di tortorella gli chiocciava sulla bocca dello stomaco kruu kruu. Una coppia o più coppie di tortorelle amorose che lui coccolava e poi copriva, quando ormai gli becchettavano la maglietta della salute e l’ampia camicia, con la sua bella giacca inglese. Il suo soffrire lo concepiva dentro l’amore, non proprio quello banale, che è mortale e poco riscontrabile lontano dalle alte sfere, ma qualcosa di più modesto e singolare, qualcosa che capitava proprio a lui, tutti i giorni che poteva capitare. Lui diceva tra sé amore e intimamente intendeva la cosa giusta. 
Pisìca “Pissicúza pis pis pis unde merge menz alís? Pissicúza pis pis pis, unde merge menz alís? Unde merge in la nopte, Pissicúza pis pis pofte?” Ah la Gigíca, la Gigíca, che donna! Che maestà di portamento, che orgoglio la Gigíca, la futura suocera romena, reginità di mamma in pugnale di ustascja, mater matuta, faro nella notte, incrociatore conduttore di flottiglia per la sua Pisíca (3) e per il suo Mario Imperatore, figlio uno e trino, gigante gigantissimo Mario, sovrastante la mamma ma alla mamma ubbidiente lui, il più bello dello spiazzo, sovrintendente a tutte le seghe del palazzo scala A e scala B, Mario barbone ben curato da ufficiale di marina alle calcagna della sua anche di lui per scrupolo famigliare Pisíca. Ah, la fascistissima romena tuttalatte, emigrata al seguito della disfatta italiana in oriente, al seguito del suo innamorato Costantino piccolo piccolo cuore d’oro, uomo d’onore e di bel portamento anche lui a sciropparsi in famiglia, anche lui di marina anche lui tutto per la sua Pisíca e per il suo Mario, ma soprattutto lui per la sua Pisíca, che del Mario non gli rimaneva più niente da piluccare dopo mamma. Tutti addosso alla bella creatura, al suo bel muso di pappagallino, al suo lungo torso egiziano, al suo bel sedere dentro le gonnelline scozzesi con lo spillone sul davanti come cent’anni fa e fra cent’anni ancora. Mistero della moda.
Lei, lei, lei capelli mesciati ricciuti naturali già a vent’anni. Lei, lei poesia dello spiazzo, cocorita cardellino, labrusse pallide e tenere, fiore nel fiore di platano. Si, appoggiata ad un platano non l’avresti più notata, non l’avresti più scovata nel cadere dal cielo delle morbide spore. Tra i colori mesciati del vecchio platano non l’avresti più raggiunta, ma solo addocchiata sciogliersi in marron, il colore di Pisíca senza la gonnellina, il colore degli occhi di Pisíca grandi.
A lui di lei cosa ci restava dopo tutto il prendi prendi di casa?
Dicasi, prego.
Lui doveva contentarsi di portarla lungo e tra i viali per la mano e giunti che erano ai giardini pubblici di quella città, seduta la voleva sotto un cedro (4) e ivi le poneva domande facili facili. Toccandole uno solo dei due seni minuti ed un solo capezzolo piccolo piccolo carezzandole, insufflava tra le sue labbra questioni di politica interna, di politica dell’educazione, di sabotaggi e altro ancora di piuttosto forte che la giovane fede libertaria poteva lì per lì suggerirgli. Come dalle sue teneropallide pendeva in ascolto di circostanziate denunce dell’implacabile tirannide accademica, tallone di ferro che schiaccia il vivere già nell’adempimento seppur scrupoloso di storia moderna uno. Ma questo fintantochè non le bisbigliava i progetti per liberarsi della Gigíca e del Mario e del Costantino, tutti assieme o uno per uno, in fretta. Voleva goderselo lui il suo papagallino, mane e sera; voleva portarselo al mare e dormire sui sassi ben lisci e caldi come angioletti e fare l’amore ogni momento e poi non andare più a casa per quella sera, in nessuna casa, tantomeno a casa ogniuno per conto suo, con l’aggiunta di tutto il frinfron frinfera dell’ora ti accompagno un pezzo io, no ora ti accompagno me: su e giù anche un’ora per l’ultimo viale di platani; quello del tramonto, per forza di cose. Voleva fare un viaggio lui con la sua Pisíca, un viaggio di quelli dove si vede il fior fiore della storia d’Europa passare sotto la ferrovia e volendo ci si può fermare qua e là per arraffare con sguardo rapito qualcosa da portare a casa meglio di una cartolina; un viaggio in Toscana ad esempio, dove si colgono le grandi occasioni per capire e per godere delle meraviglie di torri e castelli, di colline verde civiltà e locande a forma di monastero dove il vecchio padrone riposa ancora nella poltrona di cuoio frau e aspetta la Pisíca con il suo ragazzo per dargli da mangiare le bucce di patate fritte e i fagioli cannellini e ogni sorta di tenero porcello.
E poi che furon sazi, avrebbe aperto il vecchio Italo (5) il suo cuore di anarchico benestante con qualche bel raccontino dentro e le sue belle mani molto fini e tutte rovinate dalla tortura nazifascista apriranno la camera numero dodici ancora parlando, ancora dolce e acuto il suo viso austero, per gli antichi geni, per amore di loro due e di quanti tra i giovani soffrono l’ingiustizia economica e sessuale.
La numero dodici uccellino mio!
Vieni, chiudiamo gli scuri, guardiamo dentro gli armadi dei frati, odoriamo la canfora, sfogliamo il copriletto e poi il lenzuolo. Ma non facciamo passi falsi, non cerchiamo baciandoci di stenderci sul letto, vedi che potremo cascare, vedi che potremmo scompigliarci e sciuparci la scena. Eh si, ora ci tocca abbracciarci per terra mi tocca tenerti la testa mi tocca di dirti qualcosa per scusa (6). Non farmi fare queste figure, vieni. Vieni Pisica e questa volta dammela e vedi te come si può fare senza dovertelo chiedere. Levami questo peso mentre io ti sfioro le ciglia ti bacio le gotusse ti penetro la maglia girocollo, ti sfascio il reggiseno e dai e tre e questo è nuovo. Ma la tettina è lì, tutta dentro la mia mano (7) e dalla mia mano va su su e mi da il colore al viso, mi stira i capelli, mi succhia la saliva, mi benedice mi salva mi strappa la cerniera e non siamo che all’inizio. Io ti penso e ti adoro cocorita e ti bacio il palato profumato, io ti amo leprottina (oh se ti amo!) e con l’unghia mi aggrappo alla mutandina e tiro e tiro mia coniglia mia speranza mia adorata; e tu ti dai da fare? Tu fra le ragazze sei la più graziosa, sei la più timida, la più stravagante. Tu non ci sai fare, si capisce, e non trovi il pisello che è tutto di traverso alla mutanda, ormai ce l’ho in tasca, ormai bisogna che ancora ti dico qualcosa.
Ma non farmi parlare non farmi dire prendi tira gira apri in su in giù ora dai; impara mio bene, non vedi che io ce l’ho fatta? Son giunto finalmente a questo mare, allo scoglio che ho trovato mi aggrappo e non lo mollo; ma cerco di fare il delfino, di scioglierti con grazia ogni groviglio che incontro, di farti straparlare tuttarosa tutto un riflesso, un piacere che sembri appena colta, o mia Pisíca, in questa stanza che già fu di certi austeri religiosi e ora la noleggia con gesto civile e compunto, il compagno Italo, nostro confidente in questo viaggio, in questa contingenza amorosa.
Me la darai oggi?
Sarò capace di prenderti io senza perdere troppo del sangue mio, senza farti gridare se perdi anche il tuo? Dammela ti prego; è già tutta in mie mani, é già tutta compromessa: siamo nel guado glandolare cardellino. Solo non farmelo dire prendimi beccalo eccolo godilo. Che vergogna mia amata gesù, che vergogna.
Tutto ciò ricordavano sotto il bel cedro del libano, tra i pissi pissi dell’amore e dell’ideale e lui rosicchiava quel poco o niente che rimaneva della sua tenera Pisíca con il circospetto ardore che l’età, l’educazione e il luogo esposto gli dettavano, e pensava fervidamente a come averla maggiormente per sé, tutta per sé, in qualche casetta o appartamentino, lontano dalle sgrinfie di chi si è già detto.
Forse un matrimonio? Forse che un matrimonio avrebbe riparata l’assenza? Forse la Gigíca schiaffeggiatrice di giovani promettenti, la fascistona e i suoi bravacci, avrebbero consentito l’unione civile senza sfarzo e senza pope? Dimmi fiorellino piumetta di platano, dimmi da questa panchina ora umida di guazza, il proposito tuo; esortami a un gesto, metti ali al mio coraggio libertario e involami nelle decisioni irreparabili.
Hai messo ali ai suoi piedi amorino dei platani mesciato e una tortora sul suo stomaco hai posato.
E una.
Nei recessi dell’epigastrio. Nessun dorma.
 Intanto bisogna sapere che a volte il suo limo lo prendeva e lo invadeva nei bronchi e nel petto e la sua faccia non poteva più trattenerlo ma lo lasciava scorazzare per tutte le sue espressioni, così che poi si impadroniva della voce e cominciava a parlare per lui; ma siccome che questo suo limo non era certo un letterato non sapeva fare altro che borbottare e borbottare per parecchio tempo, finchè non si strozzava da solo con qualche concetto troppo ampio e non dava allora che in respiri molto cauti e lunghi e dalle labbra e dalla lingua uscivano solo dei tzh!… intervallati uno ogni tre o quattro secondi.
Egli allora era preso da una grande angoscia e desiderava di farla finita in qualche modo e pensava con l’immaginazione a tutte le vie possibili per far cessare quel terribile sgomento e pensa che ti ripensa l’unico modo che infine trovava efficace era quello di spararsi un colpo di rivoltella alla buon’ora. E in effetti si poneva assai di frequente i diti pollice e medio della mano sinistra contro la tempia e si offendeva un colpo o due. Se li sparava con dignità e convinzione e per qualche attimo l’orribile angoscia lo lasciava quieto.
Ma quieto per modo di dire perchè appena passato lo sciok dell’esplosione riprendeva a fare tzh!…1 2 3…tzh!…Allora se proprio il dolore e l’angoscia erano grandi, stringeva i suoi bei pugnetti lisci e teneri e bisbigliava O Cazzo due o tre volte, facendo subito dopo ogni volta un cauto e prolungato sospiro. O cazzo! ingiungeva al mondo intero -respiro- O Cazzo! guaiva di sé e del suo amore -respiro- O Cazzo! libera nos domine. A cosa serviva tutto ciò se non a consegnarlo ancora una volta parvula predula del suo magone interiore? Ah, magone vigliacco e crudele! E giungeva a concludere l’iter, ormai fattasi notte fin quasi a lambire il giaciglio, un deliquio generale, come un’uggiola tra stomaco e gola, che inesorabilmente lo affogava in uno sbadigliamento ostinato, concomitante ad un rapido accelerarsi della peristalsi intestinale giù giù fino agli sfinteri.
E poi si bagnava con due o tre gocce, non più, di pipì.
Non doveva essere arrivato ancora ai quaranta, ma era difficile dirlo: con quei tipi come lui non si sa mai, ché in certe parti ne dimostrano di meno e in certe parti ne dimostrano di più e a volte basta cambiare l’angolatura o il punto di luce. Per le strade camminava un po’ di sghimbescio a lunghi passi sbilanciati in avanti e era facile che si fermasse per guardare un mucchio di cose, specialmente nelle vetrine di tutti i tipi e in particolare dove a volte esponevano la cioccolata fondente e nocciolata in grandi pezzi fantastici e lì vicino le offerte del caffè e i biscotti mattutini. Ma poteva anche darsi che si fermasse davanti a vetrine di cravatte o anche di biancheria o di dischi e stereo hifi: nel guardare non aveva predilezioni per un particolare settore del commercio di beni. Dava dunque l’impressione di essere curioso e ben disposto.
 Aveva l’abitudine, la malattia, il vizio (perchè gli era pervicace e indomabile come può esserlo il vizio del fumo), di canticchiare e zufolare ovunque, e quindi anche per la strada. Potevano riconoscerlo per questo anche a qualche decina di metri pur se il suo repertorio di arie motivi canzoni e voci era così vasto che poteva essere scambiato per due o tre canticchiatori diversi (8). Repertorio senza dubbio vasto e popolare, atto a catturare le simpatie di un pubblico ampio e diversificato. E se solo fosse stato avviato a tempo debito allo studio della musica e all’educazione della sua bella voce, quel giovine in giacca da caccia non sarebbe sfigurato per le strade della sua città, nè tantomeno in tanti altri luoghi anche più consoni all’esercizio dell’arte sua. E qualche soddisfazione gli sarebbe pur venuta a involarlo un po’ più su dei marciapiedi e dei passaggi pedonali soprattutto. Datosi, purtroppo, che non vi è da subire tormento peggiore che tenere un’aria in tono nel mezzo del traffico, senza la minima comprensione, senza il minimo rispetto da parte di nessuno.
Eppure, va ricordato, cantò a lungo, finito tutto il resto, nelle notti che si sospettavano attacchi fascisti da un momento all’altro e nella fioca luce della sede di via dell’Oriolo non c’erano altri pensieri o posti dove stare a sostio (9). Ha cantato anche senza accompagnamento perchè le giovani compagne non avessero da temere e lui stesso non avesse da starsene con un manico di piccone in mano a paventare il peggio del peggio; che nella fattispecie si incarnava senza possibili equivoci nella crudeltà inumana di quella teppaglia tutta cinture nere, tutta campi paramilitari e pesistica, tutta facciacce lucide e fresche di barbiere, bestie da guerra che ci sapevano fare con certi brutti coltelli che guai a essere meno che sicurissimi e decisissimi a vincere lo scontro, a farla finita una volta per tutte con gli assassini di tutti i nostri morti. Certo, senza inciampare nel piccone.
Si, figurarsi,proprio lui, che era le salmerie della lotta. Tramontate stelle tramontate stelle.
All’alba vincerò.
Almeno all’aperto era un po’ meglio. All’aperto c’erano gli alberi a volte per fare nascondino con i caramba e i tombini per buttarci dentro il proprio e l’improprio degli armamenti. All’aperto si poteva andare su e giù rapidamente, elaborare una strategia e accettare lo scontro da una posizione di forza. Poi, quando era la stagione, in molte piazze d’Italia si trovavano per terra, buttati là, una quantità di buoni pinoli ancora con tutta la ruggine intorno e quelli più fortunati e più preparati si erano portati da casa la fionda e allora con la fionda a pinoli era un’altra cosa, così precisi com’erano e così pratici da tenere in tasca, nelle tasche voglio dire, perchè, come si sa, non potevano essere meno di quattro sul davanti della casacca o giubbonetto o cacciatora. Meglio di tutte la cacciatora, a causa del portafagiani posteriore.
E poi siamo sinceri, all’aperto c’era anche la seconda e la terza fila e così via: a ciascuno secondo le sue possibilità.
E quanto allora faceva bene il canto!
E il canticchiar vittoria, specialmente nella prospettiva di una serata stanca ma felice, tutta riverberata di un caldo dentro, timido, appena un poco coadiuvato dai vini nostralini dei circoli enars endas arci, a bagnomaria di un popolo dimesso e restio, solo anelante alla bestemmia a traverso del tavolo del tarocco e della bazzica, ma sempre meglio che ogniuno a casa sua.
Casa sua naturalmente, quella affittata da un barbiere di collina, unto e accondiscendente lui, bianca e severa e lucente di ardesia lei, a strapiombo sulla sua patria vallata, a capofitto sul fiume tuttocurve, ponti e ferrovie: ameni luoghi. La casa con il caco all’aria di ponente e il cesso di fuori con vista a mezzogiorno, l’ora in cui non si caga ma si può contemplare la certezza che c’è colei che ammanisce il sugo nella pignatta della casa di fronte, così potente quel sugo, valicante i muri e i cuori inariditi dal latte e caffè. (E quella casa aveva dalla sua il sole: ogni ora del giorno, per tutte le stagioni dell’anno.)
Il barbiere era assai aggiornato come uomo di mondo e amava i tagli moderni e spregiudicati e si piegava malvolentieri alle mezze umbertine che lui tentava di pretendere, seppure con le cautele del caso; ma poi andava a trovarlo, fatta notte, per ascoltare insieme i dischi di Fischer Dieskau che canta il Don Giovanni, e mentre ascoltavano zufolavano con trasporto e mangiavano sementine e pistacci. Mai avevano omesso, all’atto del commiato, di intonare los quatros generales, mai di bersi un liquore di rose romeno, forte e disgustoso. Ahi cosa, mi sovviene nel ricordo di quel liquore!
Poi, mentre la notte passava, ascoltava la sua casa aprirsi ai rumori della valle, innumerevoli distinti suoni di fabbriche a cottimo, di espressi e accelerati, di uccelli notturni rapaci: mostri anelanti alla sua anima e alle sue menbra senza difesa su quel poggio ove forse già lo stesso Dante ebbe a temere la notte e le tenebre.
E il canto allora ritornava a preservarlo, a celare ogni cosa e a consolarlo. Ed era un canto sotto sotto, che nasceva dal diaframma e si fermava alle tonsille: appena appena perchè lui potesse ascoltarlo.
Propedeutica alla donna senza cuore. 
Conduceva per le vie di Firenze una sua vita ricolma di buone idee e di perseveranti richiami al bello; e al bello giungeva -oh se giungeva!- più volte al giorno e da ogni dove.
Aveva sopra ogni altra cosa una grandissima stima dei giornaliradio del mattino che ascoltava con vero entusiasmo di neofita, appena appena accigliato, e con la tazza del latte e caffè e il pacco dei savoiardi si adoperava di girar la cucina finchè non trovava un posticino da starsene aqquattato al sole e alla radio. Il sole stava sopra Porsanmaria da una certa ora in poi, ma prima lui ancora dormiva e nel sonno, a volte, sognava. A volte invece…
A volte invece restava per molto tempo con il palmo della mano adagiato sul dorso di piuma di lana dell’amorosa sua e si chiedeva sinceramente stupito come poteva un torso e più giù un ventre e più giù una vagina con tutta la ciccia intorno e di dietro un culo e più giù una coscia e giugiù ancora un ginocchio e un piedino, essere tutto quel gran cantiere e ogniuna delle sue parti, essere ogni cosa e l’insieme, così perfetti, senza la pur minima macchia, o eruzione, o smagliatura o falsosuono. E ancora si domandava se per un puro caso non si potesse stabilire che ciò era dovuto al perfetto che poteva cogliere guardando dalla finestra i quartierini di via delle Terme; il perfetto della vita in quelle finestre dirinpetto e di profilo, di qua e di là fino a Orsanmichele e al Parioncino, tutto un pullulare di vite perfette intiepidite in mattoni perfetti.
Come sul trespolo la cocca della nonna tu qui mia amata sei l’emissario del donatello che cova in me, che covo in questa casa del trecento, rifatta nel cinquecento e poi adibita a cenacolo di troie nel milleseicento e poi ristutturata nel milleottocento -Firenze capitale-, le ultime scians per non essere da meno a tutto quanto ci guarda di traverso alle bifore e dalle trifore, a tutto quanto è passato dalla porta carraia e dalla porta pisana e rotola tuttora la mattina presto sotto il portoncino di via Fiordaliso. Tu sei qui, mia amata, l’anello che ancora mi manca.
Sogno o son desto?
Son desto e ti rimiro mentre dal torso in su riposi quieta e sogni e dalla parte di giù un anelito s’invola e mi sfiora in predicato. Io l’ho rubata al sultano clandestino ed esule; gliela sottrassi, spero, nel giardino del re a Boboli in un impeto mai più ripetuto di fede ed arroganza. L’ho sfidato a Lepanto il moresco e ne ho fatto macelli (10). Lui persiano di casa reale e io del contado dell’ammiraglissimo Doria; non c’è stata storia. 
Ti ricordi la miscela Leone?
Si, ma forse a me mi ci mettevano l'”Ecco…” nel latte.
Una mattina suo papà l’ha chiamato lavati zitto lavati senti i russi bombardano i ragazzi coi cannoni zitto. E allora c’era la radio sopra il mobile della cucina e aveva l’occhio magico e parlava e cantava meglio di tutte le altre radio. E di certo meglio che da tutte le altre radio giungevano ora moltissimi rumori e dopo ogni lungo rumore si sentiva bene la voce di un signore che diceva qui da budapest poi un altro lungo rumore li abbiamo visti poi un altro lungo rumore ora sono proprio davanti a noi… bandiere un’altra salve…. Ma suo papà piangeva mentre girava l'”Ecco…” nel latte che non era troppo caldo e quel suo pianto era per lui un mistero più misterioso ancora di quei lunghi rumori alla radio che volevano dire che i russi uccidevano i ragazzi con le bombe e con i cannoni. Senti?
Ti ricordi la miscela Leone?
Si, mi ricordo, ma non so più se sul davanti c’era la figurina di un leone o c’era un vecchio con la pipa; ma sul davanti del caffè Bei & Nannini c’erano tre gobbetti. E mi ricordo che proprio quel giorno sono arrivate le donne di Caniparola con i sacchi di mondine (11) sulla canna della bicicletta, mezzi vuoti e mezzi pieni, e che dunque ogni cosa avrebbe ripreso il suo corso invernale. Si, certo. Infatti quella sera portarono su per le scale in processione, incatafalcato nella coperta marron, il trespolo scaldaletto denominato prete per il suo letto e per quello della più giovane delle sue zie che però molto spesso con lui si giaceva; e dietro a tutti, dietro a tutto il loro pigolio, lui si girava ogni tanto verso il buio e vedeva le stelle e tra le stelle vedeva l’orsa maggiore; ma non la prima stella del manico che era tramontata dietro al fienile della Fernà. E prima che lui dormisse suo papà non piangeva più, ma stava dietro a una canzone che la radio migliore di tutte le altre cantava dall’occhio magico. Chi gettò la luna nel rio, chi la getto? La luna mia nel rio, chi la gettò? La luna mia nel rio, la luna mia, chi la gettò? 
Qui, ora, per le vie di Firenze, egli sciabordava come un principe al seguito del suo bel cane Lupa e con il suo regale aspetto gli apriva varchi in ogni luogo, persino al Revoir, persino al Pitti e sussù per Boboli, insino al Belvedere. Quivi si appoggiava a un muretto che dava verso il sole e, con la bella Lupa avviluppata tutt’intorno, faceva il cieco, con gli occhi versati in su come santa Lucia.
Fu in tali frangenti che gli apparve il simulacro in ambage della donna senza cuore. Egli, immemore di ogni patimento passato e presente e solo vago di una certa qual perdizione (12) che gli alleviasse -benigna- il carico greve dei ricordini che gli pesava nelle sacche biliari sottintese alla sua bella camicia, lui medesimo della PIsica e di ogni altra effigie, ne fu all’istante rapito.
Come fu possibile acchiapparlo? Quale la tecnica? Che si sappia, che sia tramandata a beneficio di terzi. Non accadde forse in virtù dello splendente sorriso tutto di dentini che come pesciolini guizzavano a pescare la luce del sole calante? O forse, vista da dietro, non sarà stato per l’incredibile treccia danzante che sfiorate d’un balzo le spalle la schiena e la parte più giocosa del suo sedere, con fare volpino flischh floschh, turibulava d’intorno aère di Givenchy? O forse per il modo con cui portava tra il seno un gattino siamese con la faccia da deficiente, ma non le tettine, quelle no che non erano mancanti, che anzi trasparivano erette e scrutanti, come le facce dei presidenti sul monte Rushmore. Fu forse il suo modo di accostare in maniera stravagante la pelle lucentissima riflettente con un vestitino d’organza marezzato nei toni del blè? O invece piuttosto la profezia di oscure coliti, di spasmi al piloro, di arie di pancia, che pure s’intravvedeva, a cercarla, tra le pieghe di quell’incontro? Comunque qualcosa lo spinse a guardarla, a vederla così come gli era apparsa, e quindi ad andarle vicino, a farle ehehmm all’orecchio ed aspettare il momento buono per baciarla. Che venne con tutto il contorno nella prima aiuola a sinistra, quella con i ciclamini sotto ai cipressi; così come da Cosimo in poi, giù giù sempre più giù nel fango, si era soliti fare nei giardini del re.
A chi la pupa in organza plissettata testè sottratta all’esule sceicco?
A lui, al ciechino tuttocuore tutto un sorriso tutto in deliquio.
Lontano ma molto lontano da lì la verginepelosa Lupa si accasciava di schianto sull’ignaro gattino: se lo sarebbe infine pappato?
Ora che mi stai distesa innanzi tra le lenzuola di un materasso che ci vuole troppo coraggio a darci un’occhiata per bene, ora che non mi guardi ma la tua testa di morbidi crini dorme ancora un pochino e sul tuo ventre piccoli pensieri stanno asciugando la guazza di una notte dove c’è stato amore -amore è una parola l’amore vero non esiste è solo nei sogni di chi ha passato una triste gioventù (13) -, ora che non vorrei essere qui ma a mangiare la mia colazione perché me la merito, perché mi fa bene, ora adesso io sono certissimo che fai già parte della storia dell’arte, sei una truffa magistrale né più né meno della falsissima prospettiva che mi dà il capogiro quando guardo il Loggiato da via Tornabuoni. Tu mi strazierai, sei venuta per questo. C’è in te una perfezione, un combaciare di indizi, come se ti avessi fatta io, io per me. 
Ti ricordi Del Rio (14) sullo Stelvio?
Si mi ricordo e ancor più mi ricordo che quella mattina incominciarono a zappare patate che era ancora buio e alla fine ce n’era una lunga fila di cassette sulla strada e tutti venivano a comprarle e ognuno aveva il suo bilico per pesarsele alla maniera sua, e anche la Fernà ce l’aveva, sbilenco, che però invece che con i soldi pagava coi cavoli verzoi da trapiantare e ogni lumachina che c’era sulle foglie facevano due lire di meno. Le contava lui, che aveva fatto la prima e aveva il quaderno della brutta; le contava fino a cento. E poi?
Poi bisognava aspettare la tappa e quando arrivava saliva lui sulla sedia e accendeva la radio sopra il mobile con la vetrina e allora dopo un po’ che aveva preso la scossa la tappa scendeva giù nel filo e dal filo saliva e saliva nell’aria e volando nell’aria arrivava allo Stelvio che è in altitalia e lo Stelvio lo sanno tutti qui da noi che è cattivo come il veleno perchè rovina tutti i bravi ciclisti e qualcheduno non torna nemmeno a casa. Ma lassù sullo Stelvio c’è adesso Del Rio, lassù da solo senza l’acqua e senza nessuno che gli vuole bene, senza il berretto in testa, senza più tubolari a tracolla e non c’è nemmeno Coppi che è indietro di dieci minuti. Noi qui ti vogliamo bene Del Rio che quando passi dall’Aurelia noi ti chiamiamo e tu ti fermi per noi e ci carichi e ci porti sulla canna, che ci fai il solletico e ci vinci tutti i circuìti da Casano a Madrignano. Noi vogliamo che torni Del Rio sta tento ase che te vo farne morire mola r’raporto ne darghe ne darghe a volata pite n’po’ d’acqua renfrèschete er zervelo che te te mora e n’te torna pu a cà.(15) 
Ma poi, qui, in questa città di antichi mattoni, seduto a spipazzare sui gradini del bargello in perfetta e non richiesta armonia col quadro d’insieme, egli si interroga dubbioso: come può conciliarsi lo struggente ardore dell’anima e del corpo con una dieta povera di proteine nobili?.
Per potere si può, basta lanciare il cuore oltre la trincea. Là, di là dal fiume, tra gli alberi dove fievoli passano le inglesi che vanno al Piazzale a fare i disegni e subito dopo si buttano a capofitto a fare i pompini a quelli di Carrara, i principi indiscussi dell’imbrocco.
Epitalamio al modo antico
 No, meglio tornare a casa e darsi un po’ da fare, meglio curarsi. Se c’è bisogno anche scioperare, anche votare, anche prendere il sole passeggiando.
Anche imparare a guidare l’automobile e con essa condursi su in alto sopra la città e in certi spiazzi che il buon dio ha preparato, imparare ad amarsi.
Amarsi con chi? Amarsi con personal con control con le braghette ancora indosso; con la cassetta di De Gregori -che non è musica divina ma che va bene lo stesso-. Impariamo per bene l’emergenza; impariamo a portarci stretto al cuore il pacchettino dei fazzoletti. Ma soprattutto impariamo a portare a contatto di pelle indumenti di seta fruscianti, anzi, sibilanti come un richiamo, come un allarme: la sirena del pronto soccorso che viene a salvarci dall’ultimo imbarazzo, da un ulteriore passofalso.
In questa savana odorosa di scottex, in ogniuna delle medie cilindrate, potrebbero essere dibattuti snche problemi scottanti, chi può mai saperlo?
“ … “
“Dunque io t’amo…”
Lei, tuttora lei, inossidabile cuore di pietra scolpita -non c’è dubbio- prima ancora del Biancone dalla stessa lizza apuana, gli dà un’occhiata palpebrante, quasi cinematografica. Poi si fruga e si mette a fumare.
“ …”
“Infine io t’amo, dunque.”
Ancora lo guarda, dolcemente; ancora fuma e il fumo morbidamente rimbalza sul parabrezza. Una coreografia.
“ …”
“Non potrei altrimenti spiegarmi la frustrazione dell’animo mio, il mio sgomento quasi panico. Tu mi hai innamorato perdio! E ora dimmi, ti prego: ciò ti imbarazza o ti porta un qualche fastidio?”
– …”
“Io so che il mio sentimento ti chiede e ti pretende, già ti ha fatta mia. Il resto è quisquiglie; in verità io son qui a chiederti un consenso che già il mio cuore ti ha sottratto.”
Lei, ricci sulle gote, è ora un poco discosta. Guarda di sotto in su qualcosa lì vicino; forse il bordino un po’ scollato del bollo di circolazione. Tuttora non alita verbo.
“ …”
“Potrebbe attenderci una lunga trattativa se tu lo volessi; di detto e non detto, di dato e non dato. Estenuati potremmo infine amarci liberamente, schiavi unicamente delle nostre pretese e delle attese che ci separano.” Ben detto, oh, si! Ben detto.
Ancora un poco ritorna a guardarlo e nel farlo si discosta di una misura. Scuote a lungo qua e là i suoi bei capegli: fa di no con la testa. È un no piano piano rallentato vieppiù dall’onda tornante dei capelli. Gli occhi suoi sono immobili ma con l’indice della mano sinistra, la sua mano più tenera e sveltina, ribadisce no no. Si abbandona a una sillaba.
“Io…”
“Si, dimmi ti prego. Tu?”
“…”
“Tu, amore mio?”
“…”
– No, ti supplico, non lasciarmi senza parole. Concedimi un varco, ch’io sappia trovarti, ch’io sappia vedere il tuo cuore, riconoscerti…”
Gli è tornata un poco più vicino. Si mordicchia senza impegno un po’ il labbro di sotto, un poco una pellicina sul dito con cui ha appena fatto di no. Lo guarda, e il modo di serrare la mano allsua bocca è una perdizione, un diniego perfetto..
“ …”
“Ma ora, dunque: io posso amarti almeno? Posso farti mia? E come posso se tu ti rifiuti?”
Le labbra sulla pellicina sono scarlatte e, a vederle, dolcissime. Il labbro di sopra è il cuore di un’ostrica, che però odora appena appena di salvia. Chissà perchè, visto che non è erba per i suoi denti. Ora pronuncia numerose parole, verbo compreso.
“ Cosa vuoi da me?”
-”Io, vedi, farò un figlio con te.”
“Ma sei pazzo?”
“Io farò un figlio con te io farò un Cristo.”
Tu ti sgraverai del nostro agnello senza pena e lo darai a questa tana mediacilindrata perchè cresca in saggezza e bellezza ancora un poco prima che, prima che sia consegnato al mondo per il suo martirio e lontano da questo gonfiore di bene, che ancora non ci preme ma che allora sarà abbastanza per sovrastarci tutto in splendore, e lontano lontano da noi, dalla nostra professione, dalla nostra fede, sarà in qualche posto a diventare Dio per questi quì e per tutti gli altri.
Tu farai un figlio con me e sarà un Cristo.
E subito vedremo in lui il segno della profezia e accosciati nella nursery daremo lo spettacolo del nostro stupore e del nostro nuovo candore; ma guarderanno soprattutto te, la fattrice, la donna che molto ha peccato senza ritegno di vergogna alcuna al cospetto degli uomini; ed ora si è fatta Madonna.
Ti assomiglierà.
Di te avrà il supremo desiderio di perire sotto la propria sostanza di carne ed ascendere ad altra sostanza di passione e di spirito, proprio allo stesso modo in cui si condussero le grandi donne della tribù di Giuda, ma anche le donne delle città di Dio Cordova e Cartagine e i grandi asceti nelle isole di sale del Nagd. Di te avrà la follia sovrumana irrimediabile che domani ti porterà a me calzata dei sandali e dell’ampio velo celestino che già ho visto portato da certe ragazze che molti secoli prima di te furono dipinte con l’intento di durare e perirono in città saccheggiate e incendiate prima che potessero mandare a frutto la madonnità; che tu hai riconosciuto quel tempo guardandoti, ma che tutta solo ora tu hai, prescelta predestinata fatta madre di dio a partire dai tuoi occhi, dalla minuscola lente dentro i tuoi occhi che traguarda sempre all’astratto, al remoto reticolo di intenti logici che misteriosamente conosce il tuo intestino e che riguardano non me ma il divino disegno del mondo.
Oh già! Io lo cullerò il bambino mio non fatto da me non pensato ma raccolto, e lo bacerò e più volte al mattino e alla sera lo toccherò con le mani e con il mio naso e dalla mia coscenza lo depporrò nel mezzo del tuo ventre appresso al tuo seno -le tue mammelle si dispongono sul mio viso come colombe farebbero tra le mani di un venditore di colombe al tempio di Gerusalemme, come spuma come spuma di fiori d’acacia mi tamponano le labbra mi domandano mi chiedono ragione. Io la licenziai in segreto ma in segreto la ripresi con me-. Io lo allatterò come mi sarà concesso e lo nutrirò di ogni cosa adatta e come se tutto dipendesse di li in poi da questo mio gesto, lo porterò presto al mattino di una domenica alla casa di dio e sarà riconosciuto e benedetto e io benedetto con lui e tu sarai conosciuta e al posto dei sandali calzerai babbucce di raso legate con l’oro trapunte con gemme.
Guardiamoci ancora un poco allo specchio questa mattina, che non sia cresciuto il mio ventre più del tuo questa notte che apre la luna di Marzo e a me è propizia, si.
Presso l’Aquario arda pure Orione, e chi se ne frega, a noi non interessa ormai più di tanto; ma il solo gesto di chiamare la luna e di contarla tra le dita e ricontarla ci pare un debito auspicio. E toccheremmo ferro e faremmo le corna e i versacci se non si trattasse di questo portento, se non fossimo io e te Maria semprevergine tutori di un cristo tale da farci persino paura.
La consegna è il silenzio o madonna.
Egli ora le è vicino, molto vicino; le carezza con cautela i sopraccigli -anche quelli teneramente mesciati, screziati da peli quasi incolori-, le ciglia e le gote; le tocca col dito le labbra, le preme appena. Le labbra sono ancora scarlatte ma un poco di quello scarlatto ora gli segna il dito, come un promemoria. Adesso lui ha finito.
“ …”
“Ma tu sei pazzo, veramente pazzo.” 
Epilogo
 La donna senza cuore venne, palpitò navigante veleggiante nell’aria e se ne andò.
Non lasciò tracce, non ne aveva portate; ad essere sinceri del resto, nulla prima di lei l’aveva pensata o prevista.
Infatti.
Infatti quel tipo in giacca da caccia inglese finì col perdersi di lì a poco tempo dagli avvenimenti qui narrati, in una serie di infime vicende personali e politiche che lo portarono infine ad un appartamentino in centro città, dove, munito di ogni ragionevole conforto, si lasciò definitivamente morire. Fu trovato per via dell’odore. Rannicchiato sul letto, in una posa non scomposta, aveva sul viso un asciugamano che, poi si saprà, era stato imbevuto di una soluzione magistralmente predisposta di cianuro d’oro. Era anche un fotodilettante.
I vicini, interrogati nel corso della sommaria inchiesta, ebbero unicamente da ricordare che lo udirono sovente, nei giorni immediatamente precedenti la disgrazia, cantare a tutta voce diverse arie operistiche e canzonette. Una in particolare era ripetuta con ossessionante frequenza e dalle testimonianze raccolte pare trattarsi della famosa aria pucciniana “Nessun dorma” dalla Turandot. Una sia pur attenta analisi del testo non ha rivelato alcuna indicazione utile alla comprensione della sua tragica fine. Nessun messaggio o altro indizio è stato rilevato; sul comodino accanto al cadavere sono stati rinvenuti invece due flaconi intatti di una specialità medicinale utilizzata nel trattamento delle ulcerazioni del duodeno e la raccolta delle pubblicazioni edite per il decennale del quotidiano La Repubblica.
Dunque, mettiamoci una pietra sopra.

Note

1) Limo, dialettale (Molicciara di Castelnuovo Magra, SP) Rodimento, patimento, limío.
2) Un po’ di pastiglie di magnesia bisurata aromatic un fazzoletto grande da naso di riserva con dentro una banconota da duemila lire piegata in otto un lapis ben puntuto e una biro blu tre gettoni del telefono un foglietto di carta bianca piegato in quattro un cordino di canapa intrecciata lungo si e no sessanta centimetri l’ultimo estratto conto un ciocorì se lo trovava in qualche bar e un sacco di altre cose ancora che spesso si dimenticava di avere e rinnovare.
3) Pisica suonato a labbra ben strette e la esse ben zufolata; come Gigica loro se lo dicono con le labbra tutte in fuori, come cià di baciami.
4) Cedro del Libano altofronzuto parlami un po’ del tuo paese. Ho sentito alla radio di gente che andava a caccia nella valle della Bekaa e quelli han trovato quattro tizi incappucciati che si portavano via un diplomatico francese. Pensa un po’ mio bel cedro che nella Bekaa ci si va ancora a caccia!
5) Perché c’è stato -sissignori- un trattore a nome Italo, proprio come nel ricordo.
6) L’attimo del belinone, come si usa dire dalle nostre parti.
7) Tepore su tepore, ciccia con ciccia.
8) Per darne un’idea posso qui accennare ai brani più significativi, eseguiti con voce di baritono, tenore e falsetto (il zufolare era di denti, senza boccucce): la Boheme, tutto il primo atto in tutte le parti e i recitativi sono compresi; Over the raimbow dal Mago di Oz; Foxy lady con il fatale morso alla chitarra dell’indomito Jmmi Endrix, chi se lo ricorda? Huammmhhuuuhhuaaoohhh!!!!; Ol’ men river con il campanaccio e lo sciabordio delle pale; brani scelti di Rigoletto e Traviata con particolare riferimento alla tanto discussa edizione pel maggio fiorentino nelle tonalità della Sutherland e di Bergonzi; Tutta mia la città; Samba para Vinicius con le lacrime agli occhi; il secondo movimento romance del K 466 per pianoforte e orchestra di W A Mozart; primo e terzo movimento della sonata Spring sia nella parte di violino che in quella per pianoforte; No tu non sei più la mia bambina; Alabama Song con la perfetta imitazione della straziante sessualità di Gim Morrison; Una giornata al mare; Firenze sogna; Reginè; Tenimmece a’cussì; Se vuol ballare signor contino il chitarrino le suonerò; Fly me to the moon; Cade l’ulivo non cade la foglia; Maremma amara tutta di gola; Evrybody nid somebody dalla colonna sonora del film Blues Brothers; Sian comunisti artisti e valenti intelligenti tutti lo san; Better git it in your soul nella versione elettrica; altro ancora.
9) A sostio, dialettale (Molicciara di Castelnuovo Magra SP). al riparo.
10) Dell’infamone che pure era maestro della bell’arte civile del servire il tè ai venerati ospiti che ne avessero fatto gentile richiesta; mezz’ora esatta dopo la preghiera della sera, con il capo sempre rivolto a lei -perdinci- a lei, schermo frapposto alla mecca.
11) Mondine, dialettale (Molicciara di Castelnuovo Magra SP ed anche limitrofi). castagne pelate e bollite. Spesso, come nel testo, il termine è usato per indicare le castagne tout court.
12) Quale maggior smacco che essere dalla perdizione appena sfiorato e non affondato, dirotto! Come una questione di dignità.
13) Sanremo 1967, I Giganti. Per chi fosse curioso.
14) Del Rio Domenico, La Spezia 1934. Ben noto corridore ciclista dotato di una grande, anzi grandissima, capacità agonistica. Ha dato il meglio di sé negli anni che vanno dal 55 al 60. Bastano a descriverlo due episodi: la scalata del passo della Cisa con una damigiana da quaranta litri di vino appoggiata tra petto e manubrio; la sua cacciata dalla squadra del grande Magni per il vizio incorreggibile di scattare in fuga durante gli allenamenti.
15) sta tento ase…., dialettale (come sopra). …sta attento asino che vuoi farci morire allunga il rapporto non dargli non darci sotto non dare la volata prenditi un po’ d’acqua rinfrescati il cervello che tu muori e non ci torni più a casa.