Porto antico (9 novembre 2009)
Il porto di Genova è vecchio di mille anni, tanto quanto la sua città. Forse è così per ogni buon porto in qualsiasi città del mondo, ma quello che so è che a Genova il Porto è la forma della città, è la sua lingua, la sua ragione. Non semplicemente la sua fabbrica, o il suo negozio, o la sua scuola, o il suo governo. Il Porto è un Essere, l’essere della Città, e la città ne è compresa. Nessun genovese pensa di vivere in una città di mare, ma almeno chi vive tra Sturla e Sestri sa bene di essere un qualche pezzo del grande corpo del porto. Corpo immane di organi e membra di navi, navette, barconi, barchini, moli, teste, calate, radici, negozi, bacini, silos, scagni, officine, gru, draghe, trattori, mancine, caddrai, ebanisti, elettricisti, camalli, carenanti, carbuné, baristi, fresatori, rettificatori, sabbiatori, commessi di bordo, terminalisti, ormeggiatori, tornitori, pittori, piloti, computeristi, sarti, pompisti, frigoristi, cuochi. Anche se è chiuso in casa non può non sentire l’odore di salmastro e di nafta, di ruggine, morchia e putredine, e profumo di caffè, cacao, stoccafisso, morchia, vernice, ananassi, e whisky, vino marsala, olio d’oliva. Il porto è ogni cosa, dappertutto. E il suo cuore per tutti questi mille anni è stata la Darsena, la laguna interiore alla città, dalle Mura della Malapaga alla Lanterna, e nel cuore il nocciolo dell’Essere, dai Magazzini del Porto Franco al Cembalo e ai silos megalitici di Ponte Parodi.
Poi, un quarto di secolo fa, il cuore si è spaccato, il suo nocciolo rinsecchito. L’Essere ha mutato corpo, come mutano certi antichi animali per avere ragione delle ere. Il suo cuore si è spostato altrove, lungo e traverso le nuove calate e i piazzali, sui binari dei carri ponte, sotto le vertiginose cataste dell’ultimo, unico pensiero universale: il container. Il container è pura metafisica della Merce; in virtù di questo stupefacente sistema di packaging, la merce non ha più alcuna necessità di interagire con la natura materiale e fisica del mondo, da cui desidera solo starsene alla larga. E il vecchio porto, la città della Darsena, si sono svuotati di senso non appena si sono svuotati delle merci rare e del cotone, dei coloniali e delle rinfuse, degli imbraghi a giapponese e delle casse chiodate, delle mancine a capra zoppa e dei paranchi. Io conoscevo la Darsena. Io ho conosciuto il porto vecchio e la sua città, i suoi uomini, il suo inconfondibile tanfo, il suo splendore. Ci ho vissuto, e quando ha smesso di vivere lui e di viverci io ci sono tornato e ritornato, così come non ha mai smesso di fare il popolo della sua città; perché ha continuato segretamente a vivere ancora nei suoi infiniti anfratti, e a respirare dalle sue centomila fessure. E il fatto che esistesse ancora il vecchio porto e fosse abitato e transitato è diventato il lusso della città, l’indole dispendiosa della sua aristocratica natura.
Dico tutto questo perché oggi non esiste più il porto vecchio, ma tutti sanno che c’è in Genova il Porto Antico. E non si capirebbe niente di ciò che di questo si vede e calpesta e odora e tocca, se non si sapesse che è tutto quello che la Città ha saputo mantenere per sé del suo aristocratico lusso. Solo un modesto palcoscenico e le sue quinte, le spoglie e i cascami di superficie, sono destinati al sollazzo turistico; la materia, la pietra e i mattoni, le vie d’acqua e le correnti d’aria, sono patrimonio inalienabile della città che se lo è pagato, bene primario dello spirito. E noi ci andiamo senza neppure vedere ciò che è destinato ad altri per altro, inciampiamo nell’acquario e tiriamo diritto, sui locali da brunch e via di corsa. Andiamo perché abbiamo bisogno di non perdere la familiarità con l’Essere del porto, perché altrimenti perderemmo familiarità con noi stessi. E infatti l’Essere non è stato cacciato, non come forse gli intrallazzatori della contemporaneità amerebbero constatare. E ancora respira sommesso, e nascostamente vive. E in modo assai singolare si riprende qualcosa almeno di ciò che gli è stato tolto. L’odore, ad esempio, di morchia e salmastro e detriti alla rinfusa. Il trasandato drappeggio, impareggiabile, del colore dell’emporio perenne. Le macchine, oscuramente funzionali, che trafficano in certi periferici gangli. E i suoi frequentatori; non i visitatori, ma i familiari. E quando nelle sere d’estate vedo i ragazzini magrebini, figli dei colonizzatori delle vecchie pertinenze in disuso, che giocano di destrezza al palleggio davanti al Millo o sotto l’arco del Cembalo -rifatti non certo per loro, o forse, chissà, magari celatamente anche per loro- mi ricordo di quando a pallone ci giocavano i figli dei camalli, la domenica mattina quando il poto vecchio si dava un po’ di pace; che non riuscivano a trovar soddisfazione nei campetti, ma solo in quella loro casa che neppure i loro padri erano riusciti ad averne noia. Certo, dove prima c’era funzione ora c’è allegoria. Allegoria ma non metafora; austera esibizione del senso, non svergogna della sua perdita. Così, quando le sciroccate tengono alla larga i molestatori di pesci in cattività, il Porto Antico riesce a portare via dai suoi selciati anche le ombre della contemporaneità; ritorna scena dell’epoca moderna, l’unica epoca che questa città abbia digerito, l’unica che le sia piaciuta. La pioggia di scirocco è così densa che spazza via l’insopportabile sfavillio del pataccume del terziario arretrato, che in questi anni di poca guardia si è incistato in ogni dove, e tutto nel Porto Antico torna ad essere vivo. Tutto quello che ha senso che viva. Compreso l’ignoto –che un porto è il più ingente raccoglitore di ignoto- che in quella sfera d’indovino sospesa sull’acqua presagisce aleggia e sussurra ciò che nella luce tenue e lattea solo ombreggio e sospetto. Si dice che lì sia raccolto il tropico, ma ciò che mi lascia immaginare è assai più distante ed esotico: è tutto ciò che non riesco a sapere del posto in cui vivo.