Ombretta sdegnosa del Missisipì non far la ritrosa ma baciami qui (18 maggio 1988)
Liù 01 doc.
Sono ormai cinque anni che mi sono comprato un compiuterino e da allora non faccio altro che trafficarci dentro. Destreggiandomi nel tempo ho imparato ad intendermi con il suo procedere logico; ora, per dire, so come fare per conservare ogni cosa ben bene nella sua trama gerarchica e nulla -mi pare- va perduto e sciupato. Non è sempre stato così, e per qualche tempo mi è capitato a un certo punto di mandare a puttane qualche fase saliente delle procedure appropriate e lavora lavora batti e ribatti, veniva fuori alla fine che spariva tutto in qualche naufragio che non si sa bene ancora adesso, ma che aveva la sua bella frase di presentazione da accendere sullo schermo. E io mi sentivo tremare: “file is not found. Abort?” Oh, allora non c’erano cristi di libretto d”istruzioni per sistemare la faccenda, per cercar di salvare il salvabile, per ridare alla luce qualche po’ di un mio qualcosa che si era perso dentro quell’affare nel suo disco interiore. In tal modo molte cose di un certo valore sono sparite nel cuore del mio compiuterino, anche il mio primo racconto: Liù 01 doc. Fatto singolare, non è che quel racconto sia proprio sparito del tutto. Ogni tanto a suo piacere -nel dentro di una legge di grandi numeri e probabilità- riemerge da non so quale dove della memoria elettronica; non intero e non veramente sensato come ricordo di averlo pensato, ma a brani come filacce, stringhe di testo che risalgono gerarchie ch’io ho sepolte in altre gerarchie, dimenticate dentro parole chiave, porte d’accesso che mi son scritto da qualche parte e non ritrovo più.. Mi hanno detto che in realtà nulla di ciò che è inciso in un disco di quelli lì va mai realmente perduto: in ogni modo rimangono delle tracce e può appunto capitare che le tracce, gelate dentro sigle opportune, si sciolgano in rivoli, sormontino i tempi lontani, intere epoche e stagioni.
Liù 01 doc. File is not found. Abort?
No. Io la Liù ad esempio l’ho amata; è per questo che le ho fatto anche un raccontino, il mio primo documento, 01. E se ogni tanto mi ritorna su, centrerà anche tutto quanto del compiuter, ma vuoi dire…? Beh, a lei di me non gli è bastato, né il raccontino né il resto, e s’è sposata un avvocato con studio avviato butterato e carino, un avvocato di quelli in cardigan da bar degli aperitivi, uno di quei tipi pavidi che non hanno mai difeso un principio dolente una causa solenne, per dire un amore assassino, un tagliagole, e hanno tutto il tempo per impestare quei bars che dico io per lavorarsi le bambine tenere e bionde che ivi risiedono in attesa e in procinto, e furtivamente rubarle al mondo di lì a poco, che già nel giro di due o tre giorni sono addivenute a ganze, buone per una mini crociera, adattabili a una bmw col contratto già pronto per il radiotelefono.
Oh Liù, che male mi ha fatto ripescare questa stringa di testo!
Ma tu ce l’avevi già la macchina, vero?
Si. Avevi la macchina per darmi un passaggio verso i malcelati godimenti collinari, ed era un modello di quelli con due sole portiere sul davanti, una per il conducente e una per il passeggero. E la macchina non era troppo scura ma di un colore pistaccino che tengono i concessionari per signorine. Che coi ditini premono i pulsantini qui e là sul cruscotto ma con il cervellino sono già oltre il cofano, in compagnia del micidiale mostro di Firenze che da questo ciglio di strada litoranea è già di sicuro passato una volta gravido delle taglie che gli pendono dal capo e ha calpestato queste erbe spremute dei loro afrori e che allora -io e te io e te io e te- erano ancora alte attorno ai copertoni e odorose di timo e scottex quattro veli. Il conducente dopo un breve tragitto soleva fermarsi dirimpetto ad una delle numerose meraviglie paesaggistiche di quei luoghi e usava stendersi su quel poco di sedile che rimaneva per fumarsi ‘na sigaretta con mezzo finestrino aperto. Mentre il passeggero
Il passeggero vide una sera schierarglisi davanti tutta la valle del grande fiume dal suo apice alla bella piana a pedice, e il fiume dolciacque giostrare con morbido lavorio di curve fino al mare, con di qua e di là i paesi, e sulle colline le fiere con le luci dappertutto ma in particolare sui nuovi insediamenti industriali e commerciali; che, data la tramontana, si vedeva sino a Livorno e oltre ancora.
E sopra tutto c’era la luna, la luna maggiore sopra la sua patria. E il passeggero disegnava quello che vedeva nell’aria dentro l’automobile e nel suo movimento accendeva e spegneva l’autoradio -contenente canzoni così passabilmente d’autore! così confortanti dopo una giornata di mansione terziaria!-, i tergicristalli a più movimenti l’aerazione forzata dell’abitacolo.
Altre volte il passeggero tentava di baciare il conducente dell’autovettura e non se ne era mai pentito.
Ma la sua patria era vasta e lucente sotto la luna e tutta il cuore gli prendeva nella varietà delle sue forme tonde e per la delicatezza e leggiadria dei suoi golfi e dei colli tutti al di qua di Monte Marcello, al di qua di Oceano, già molto prima della Terra dei Morti che ancora la custodiva da ogni periglio, ma non la celava a chi l’amava e la vedeva disciogliersi nel mondo dall’alto di qualche sentiero scosceso, ricca di un cielo di stelle ogniuna al suo posto, ricca di ogni bendidio turistico e di ogni altro accessorio: poggi verzure e fratte, pievi giunchiglie e seni. Che poi il risultato lo si poteva vedere e -oh!- lo vedeva il passeggero e se ne deliziava nella morbida flessione delle cosce di lei e nel tiepido profumo della sua vagina che si apriva in quell’azzurro e da questo era chiusa nel modo di una forte e antica donna etrusca. Che ora non c’è più. ma allora gli era proprio lì dipresso, scatasciata tra la scatola del cambio e il piantone dello sterzo; e tutto quello a cui lui anela è lì spiattellato davanti, come all’istituto geografico dello stato.
Così al passeggero gli sembravano l’un l’altra uguale identiche, con in più aggiudicabile alla signorina l’apprezzabile dono della parola rilasciato presso la sede universitaria della vicina Genova e coltivato, lo sapeva per certo, in molti esercizi pomeridiani adagiata in un letto che a lui era stato tacitamente e risolutamente interdetto. E allora osava carezzarle i bei capegli folti e ricciuti come non ne aveva mai udito di uguali in nessun luogo di lavoro o nei numerosi bars dove si usava incontrare amici avvocati di ragazze ricciute. Con molto tatto le carezzava la chioma e le folte ciglia e le guance ed infine le labbra sempre umide.
E un po’ di quell’umido serviva a conservargli nelle mani un dolore.
Parla al mio cuore Liù, dimmi che illusione non è. Io se fosse in me la schianterei.
Sapeva o non sapeva? Teneva di conto il suo passeggero o non era mai uscita dal suo bar e il dito indice della sua destra ciccetta manina ancora era intinto infreddito di coctel martini? Qualcosa tramava. Bastava guardarla nell’esercizio dell’emissione vocale: su e giù su e giù non più di un’ottava, ma che sembrava che le parole se le andasse a prendere nel vocabolarietto che aveva nella pancia. E ad ogni respiro era uno sfogliarlo ed ad ogni parola era tutto un muoversi d’aria come un continuo alitare di aliseo con dentro le voci dell’anima.
Ma cosa stai a sentire con il tuo udito sopraffino se poi c’è da svignarsela in fretta e furia prima di incappare in sa dio quale tormento di verità nude e crude buttate lì sul cruscotto -guarnito con finiture in noce- e ormai non più celate nel sacro tempio del suo ventre cervelluto? Via, via, scappa su per il nero delle fratte di querciolo, ma prima di spiccare il balzo sputa sul parafango all’altezza dei fari anteriori, sparisci. Che a ben pensarci sarebbe l’unico lenimento questo a tutti gli altri dispiaceri che sono venuti prima, lungo la strada, quando il passeggero abbatteva il suo capo sul poggiatesta per riflettere con tutta l’attenzione del caso sui molti modi per concupirla, e se ne usciva fuori all’ultimo momento utile sempre con il più stupido e di complicata orchestrazione. Allora il conducente magnanimo si impegnava in una brusca svolta a destra o a sinistra. E il passeggero grato che tornava a rimestare nella morchia delle sue buone intenzioni fino a che dai e ridai non veniva a galla qualche citazione dal De Andrè o chi per lui canticchiata sottovoce. E buonanotte suonatori.
Buonanotte un cazzo se poi bastava un nonnulla di sfregamento soppesato sulla bionda mano adagiata al pomello del cambio a cinque marcie, che il passeggero era lì a chiedere, muto e sfinito, l’ultima scians:
Ombretta sdegnosa del Missisipì non far la ritrosa ma baciami qui.
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