Nel principio (6 gennaio 2000)
Nel principio, forse, è stata la parola.
Non che prima non ci fosse stato nulla.
C’erano cieli e terre infiniti, sterminati abissi di vacuo deserto, e tenebra. Ovunque oscurità.
Nel principio, forse, è stata la parola.
Non che prima non ci fosse stato nulla.
C’erano cieli e terre infiniti, sterminati abissi di vacuo deserto, e tenebra. Ovunque oscurità. A pelo a pelo di questa insondabile vastità alitava lo spirito del dio taciturno e solingo che l’aveva creata.
Quel dio vedeva bene che in tutto ciò non c’era proporzione alcuna, ma solo inenarrabile immensità, e ogni luogo dell’universo era uguale ad ogni altro luogo, tristemente cieco. Vuoto o pieno che fosse, ottusamente versato al nulla. E la sua solitudine si fece pesante perché egli stesso non trovava nulla su cui specchiarsi, e questo alla lunga lo rendeva inutile anche a se stesso.
Allora disse qualcosa. Lo disse senza voce, perché gli abissi erano senza orecchi, lo disse senza parole perché Dio non aveva ancora trovato ragione di crearne apposite per sé. Cercò da qualche parte del suo spirito un respiro che valicasse l’orizzonte della sua perfetta inudibilità e lo trovò.
Allora Dio disse: sia fatta la luce.
E siccome il suo potere era grande, la luce fu fatta. E la luce piacque molto a Dio. E Dio si meravigliò del suo potere e della bellezza che ne derivava. Meditò a lungo sulle innumerevoli conseguenze che da quel suo farsi voce sarebbero scaturite, ma non riuscì a trovare in ciò che stava per compiersi alcun male: egli era solo gioia e ottimismo. E irrefrenabile desiderio di continuare a dire la sua.
Così parlò alla luce, la divise dal buio e diede un nome ad ambedue di modo che rispondessero ogni qualvolta egli li avesse richiamati. Diede loro il nome di Giorno e di Notte. Il Giorno e la notte sapevano dunque ascoltare e capire la voce di Dio. Tacquero in ascolto: si era agli albori dell’universo, tutto era incerto e sospeso.
Iddio si guardò intorno soddisfatto, e riprese a parlare.
E la sua voce nel corso di giorni creò continenti e oceani, rettili e uccelli alati, erbe, cespugli e alberi. Il suo alito era divenuto un canto. Cantò a della polvere raccolta per caso e ne nacque l’uomo. Lo fece maschio e femmina. Gli parlò dolcemente; aveva dovuto trovare per lui una lingua che potesse capire, essendo quell’essere l’ultimo arrivato e un po’ duro di comprendonio. Ti amo, gli disse in quella lingua nuova, ti amo e voglio che tu sia qui qualcosa che mi rassomigli. Disponi per il meglio di tutto quanto.
Iddio era stanco infine, e si coricò.
Fu l’uomo a destarlo. Si sentiva solo e cercava conforto. Quell’essere era difettoso. Era già difettoso ben prima di aver incontrato il libero arbitrio. Aveva inventato per sé la solitudine dopo che Iddio aveva creato una bellezza infinita con lui nel mezzo. Nella creazione tutto poteva essere compreso ma non la solitudine: la bellezza la negava e la rigettava oltre il suo orizzonte, nel gorgo di tenebra che aveva preceduto il verbo. L’uomo divenne Adamo
No, pensò Dio, non è bene che Adamo si senta solo; e già dolorosamente vedeva tutte le epoche a venire.
Fece allora per lui quello che aveva fatto per sé. Gli diede una voce e una parola, gli offrì la possibilità di rifare quello che era stato appena compiuto. Gli radunò tutto il creato innanzi e concesse a lui facoltà di dare un nome a ciascun essere vivente. Gli offrì non più di assomigliargli, ma di attribuirsene la facoltà suprema: l’alito del suo canto. Pensò che fosse una buona carta, l’unica del resto che valesse la pena di giocare per far contenta quella creaturina che non poteva cessare di amare.
Dai un nome a ciascuno di essi, disse Dio, e da questo momento quello sarà il suo nome.
Gli apparterranno così intimamente, pensò Iddio mentre ascoltava Adamo chiamare gli esseri viventi uno a uno, che finalmente capirà quello che ho fatto nei giorni passati. E questo gli sarà di considerevole aiuto. Avrà d’ora in poi una sterminata compagnia; e spero bene che gioirà nel sentirsi così vicino a me. Adamo stava pronunciando parole nuove di zecca, pensate appena un attimo prima di esser dette.
Cantò la sua canzone agli uccelli e alle fiere, agli animali domestici e ai rettili, ai moscerini e a se stesso, ma non per questo si sentì meno solo. Tutto quel blaterare al cospetto della creazione, schierata lì davanti a lui in ansiosa attesa di essere posseduta, non era servito a granché.
Non si trovava per Adamo aiuto convenevole a lui.
Già. E cosa poi sia successo ci è ben noto. Iddio cercò fiducioso un ripiego. L’anestesia, l’asportazione della costola, Adamo che al suo risveglio dà l’ultimo nome all’ultima creatura, e gioisce estasiato da quell’immagine delle sue stesse ossa, quella carne che sarà con lui una sola carne. Fatto baldanzoso dalla certezza di non essere più difettoso, si appresta finalmente a godere di ciò che gli spetta. Adamo che sceglie la metafora e rinuncia all’appartenenza.
Iddio lo guarda andare, lo ascolta parlare alla donna evocando se stesso, chiamare a sé le moltitudini dei viventi con voce introflessa, e sa di averlo perduto. Osserva gingillarsi nel suo giardino la creatura che ama e già si prepara ai tempi duri che verranno.
E che sono venuti.
Perché è stato davvero un ripiego. La metafora è una condanna all’esilio.
È venuta la conoscenza e la scelta, il bene e il male. Li ha portati Eva, che essendo stata fatta per seconda è venuta meglio, più intelligente e curiosa, più disposta a rischiare e meno propensa all’inane melanconia. Leviamoci di qui, ha detto al suo uomo, tanto vale cercare di combinare qualcosa. È lei che ha cominciato il viaggio, quello che stiamo ancora noi camminando.
Ma man mano che lo sguardo dell’uomo si allungava, la sua voce si affievoliva. Ha urlato, invocato, pregato, blandito attraverso i millenni; disperato ha continuato a chiamare a sé il creato, ma a lui si sono presentate solo immagini. Ha solo fabbricato fantasmi, metafore di metafore; ostinato ha continuato a strappare da sé altre costole perché ne venissero nuove illusioni. Quando è andata bene è stata poesia, quando è andata male è stata furia e distruzione anelante all’abisso vuoto, il relitto fossile di ciò che è stato prima di ogni parola, laggiù dove la solitudine non era un difetto, ma l’unica materia.
Si è presentato infinite volte al cospetto del suo dio per chiedere misericordia, per vedere se era possibile ricominciare daccapo; un’ultima scians. Il suo dio gli ha parlato, ha cercato di spiegargli; fino a perdere la pazienza, a dover prenderlo a calci, visto che alla fine non stava mai a sentire.
Ha continuato a vivere nel mezzo delle meraviglie portando con sé il dolore di una nostalgia che nulla ha mai potuto colmare. Nostalgia di ciò che era stato per un giorno solo, un nanosecondo di un unico giorno: verbo sulla punta della lingua di Dio. Da lì è scivolato e si è fatto male. È nato così: zoppo. Come il suo DNA con un buco, un inciampo a sinistra, la parte del cuore.
All’inizio, forse, è stata dunque la parola, il verbo che ha acceso il creato. Ma se pure così è successo, quella parola che Iddio gli ha offerto per semplice, sconsolante amore, l’uomo non l’ha mai saputa imparare. La sua voce non si è mai dispiegata abbastanza per colmare la sua zoppità. Non ha mai raggiunto gli uccelli e le fiere, le erbe e le foreste perché potesse generarsi una nuova creazione, infinita ed eterna; così come Iddio pensava di poter regalare alla sua somiglianza.
La parola è evidentemente soltanto qualità divina. L’unica buona lingua da imparare è durata sei giorni appena.