Il mare (3 giugno 2008)
Che ne so io del mare se non quel poco e niente che tocco navigando sguazzando nel mio mare di casa tra lo scoglio del Maa Passu e quello del Pae Veciu, per le 1500 bracciate di indefinito stile che intercorrono dall’uno e l’altro e ritorno tra Fegina e il Paese? Nulla di più, se non un sentito dire sin da quando sono nato; e se anche ne ho toccata dell’altra di acqua salata e messo i piedi a bagno persino negli oceani, la confidenza del sapere non l’ho mai maturata se non per questo specchio d’acqua non più fondo di dieci braccia che nuoto da quarant’anni come fosse la pila di marmo nell’aia di casa mia. La casa di là dal giro di costa e d’orizzonte di Punta Corvo, la conca dove sono stato sgrommato, dilavato, per tutta l’infanzia -e un po’ più oltre a dire il vero- da maggio a ottobre. I mesi buoni per lavarsi all’aperto, quelli altrettanto buoni per andare al mare e continuare a lavarsi, magari non più dalla crosta di fanga o dal moccio dei lumaconi, ma da qualcosa che nell’inverno ha sporcato da qualche parte di dentro.
Dal Mal Passo al Vecchio Padre e poi indietro. So che dal nome che portano questi scogli potrebbero sembrare fatidici, tragici e significativi, e la traversata potrebbe voler dire cose grosse di drammatica evocazione, ma è solo Monterosso; è solo la domesticità di vecchi sassi a due passi dalle rive di un paese di molti passaggi difficili e molti anziani padri almeno un tempo onorati nel loro vegliare sul niente accovacciati sulle pietre vischiose degli approdi. Allo stesso modo che nella pila di marmo l’acqua al sole raccoglieva sulla superficie un erbario di foglioline e petali, piumette e semi volanti, così nuotando nella mia vasca di mare mi strofino a pelo dell’acqua con foglie d’olivo e querciola, fiori di robinia e buganvilla, e api e farfalle, che s’involano dagli orti e dalle ripe portati dalla tramontana mattutina. Se solo sai essere morto davvero, steso come un legno secco, le sarpe salgono dal fondo a vedere se c’è qualcosa che possono buttare giù, e qualche volta persino ci giocano con l’argentino di una foglia di olivo rovesciata sul tremulo dell’onda leggera del refolo di settentrione; tale e quale i gatti raminghi addolciti dall’ozio dell’aia intorno alla mia antica conca, tentati di saltarci su ad arraffare un insetto o un fiore del pero appena planati. Per disturbare l’eleganza dell’attimo, ad aggiungerne altra.
E persino m’imbolo nel mio mare di casa, scendo al fondo, m’inabisso tra le pietre puntute di patelle e le piatte aiuole di poseidonia; mi ficco un sasso nel costume perché il peso specifico non mi tenti troppo presto a risalire. Là, nel minuto che una vita di toscani e toscanelli a malapena ancora mi consente, trovo familiarità dei ricci come deile vespe, del novellame come dei girini, del sarago solitario e astuto come del merlo. Dal giù contemplo l’universo rovescio e le sue mirabolanti luci; e in quelle luci, nei colori cangianti come se li filtrasse la tenda a striscioline colorate di quella mia casa primeva oltre la Punta del Corvo, si specchia non tanto la vastità del mare, che mi farebbe morire di paura, ma la terra intorno all’acqua, così che l’uno e l’altra sono un tutt’uno. Ciò che in nessun’altra circostanza sarà mai possibile; non per quello che io ho sentito dire del mare.
Che per uno come me, nato dai miserabili contadini della riviera impantanata di Luni Romana -e più sono miserabili, più sono incaparbiti nell’orgoglio di vivere di quello che hanno sotto i piedi- il mare, il mare laggiù oltre la ferrovia tirrenica, e oltre ancora di là dalla barriera del canneto, è solo l’esilio della disperazione, la vergogna dell’abbandono, lo sgomento dell’infinito. Mi ricordo che nell’estate del 1957, in virtù degli spiriti modernisti e arditissime libertà propri di mia zia Carla, si svolse una straordinaria cena campestre sulla spiaggia di Marinella a cui fu coartata l’intera famiglia compresa di matriarca e patriarca e non solo le nuove e spericolate generazioni. In quell’occasione mio nonno vide e toccò per la prima volta nella sua non banale vita il mare che allignava a tre miglia in liea retta da casa sua. Era chiamato Garibaldi e voleva pur dire qualcosa in fatto di carattere e azione; ma al cospetto del mare, con i piedi nudi rattrappiti sullo sciacquetto del bagnasciuga, dopo aver a lungo stretto gli occhi sul sole calante di là dal mondo visibile e umanamente comprensibile, aveva chiesto a sua figlia Carla, tanto amata e così capricciosa: a cus’i serva? A cosa serve? A niente, naturalmente, a niente che possa piacere e far comodo a un contadino. Ma mentiva Garibaldi, almeno per omissione. Sapeva a cosa serviva il mare. Serviva per partire. E partivano i disperati che non riuscivano a dar da mangiare con le loro vanghe ai figli, a comprare una sottana per le mogli. Partivano quelli di Montemarcello, che non avevano terra abbastanza nemmeno per una fila di verze. A Montemarzei a la gan la gabia ma la ne gan i usei, a Montemarcello hanno le gabbie ma non hanno gli uccelli, sbeffeggiavamo le loro donne. Quegli uomini si imbarcavano per l’esilio del mare e non tornavano più. Tornavano le loro ombre, sotto forma di vaglia postali e a volte di qualche pacchetto, ma quelli che erano partiti, no. Anche se poteva sembrare che a un certo punto si facessero vedere per il paese, che aprissero la porta di casa con una chiave che avevano in tasca, non erano loro. Chi parte non torna più se valica il filo violetto dell’ultimo orizzonte per perdersi nella vastità. Nessuno torna dal mare, e se anche torna non è più lui, ma qualcuno che non si saprà mai con chi e con cosa si è mischiato e corrotto.
Questo è quello che ho sentito dire quando sono venuto al mondo e in cuor mio continuo a pensare, qualunque cosa mi ingegni a fare per contraddirlo. Perché ancora, come è della mia genetica, soffro degli orizzonti vasti e incolmabili; e come mio nonno Garibaldi e suo padre e suo nonno, non faccio atro che costruire limiti agli orizzonti, confini alle immensità. Possibilmente con gesti eleganti; come elegante era il filare di pioppi al limite dei campi nostri, il pergolo di uva fragola al confine dell’orto, il canneto mosso e profondo al confine del mondo con il mare.
E le mie 1500 bracciate tra il Mal Passo e il Vecchio Padre sono tutto il periplo del mondo che so attraversare per mare, il mio orgoglio di contadino navigatore.