Genova (2003)

Cosa ne so poi io? Poco o niente. Non posso nemmeno dire di sapere, ma quel poco semmai di sentirlo. Sento di questa città qualcosa che mi manda a dire mentre ancora l’attraverso con il naso in su, ancora provinciale in estasi, ospite grato, melanconico campagnolo pèllegrinante ai santuari della capitale. Mi pare di poter ascoltare la sua voce di dentro, un cantare, un romanzo, una fantasia. Una voce che non manifesta e non spiega, ma che intende solo insinuare immagini interiori, sospetti di visioni, interdetti. Voce chimerica, voce maliziosa, voce struggente di donna che sa come prendere, come lasciare. Già, Genova è una ragazza complicata e bizzosa che non mi dirà mai tutto quello che voglio sapere di lei, Genova è una ragazza troppo grande perché io possa mai conoscerla davvero, qualunque cosa potrò mai sapere di lei. Le faccio la corte ma non l’avrò. Genova non si da al primo venuto e dubito che si dia a qualcuno, se non segretamente.
Non la conoscerò mai abbastanza, ma continuerà a dirmi tutto quello che vuole che io senta per lei. Ascolto, ricordo, o penso di farlo, conservo nelle tasche manciate di monetine di Genova.
Il sole delle sei di pomeriggio a maggio spalmato sull’edicola di Sozziglia; le ombre del tramonto solstiziale nelle pieghe di salita Santa Caterina. I due folletti di luce fredda e azzurra della Lanterna che trapassano la cucina di casa mia e, ratti come ladri, vanno a nascondersi nel legno nero della piattaia. L’alba di una domenica d’inverno a tramontana nel mezzo di via Venti, l’angosciante, perfetta bellezza del deserto; i passeri sull’acciottolato di Sant’Anna, il frate che sbriciola una biova, la ragazza appoggiata a un albero, confusa in una pioggia di semi piumati, che parla d’amore a qualcuno chiuso dentro il palmo della mano. La montagna del sale e quella del carbone, il bianco e il nero, il giorno e la notte, che si fanno compagnia confondendo i loro grani alla calata dei Carbuné. Un cartoccio di panissa che scotta le dita mentre il temporale rivolta furioso le tende levantine di Sottoripa.
Monetine di Genova che chiocciano e tinnano tra loro nelle tasche di un pellegrino della bellezza. Niente di tutto ciò e dell’infinito altro servirà mai a formare un atlante, un dizionario o anche soltanto un repertorio della città di Genova. È solo quello che è: lacerti di parole, grumi di crome del romanzo, del cantare, che la città scialacqua intorno a sé per chi sta lì ad ascoltare.
Ecco, voglio provare a spiegarla questa voce, voglio cantarvi il suono dell’ultima monetina che mi è caduta in tasca.
C’è un albero in Largo Lanfranco, un grande diritto tiglio, allegro come un bambino che sguazza in una pozzanghera di luce. È così invadente la bellezza di quel tiglio, che persino d’inverno riesce a colmarne la sua piazza, e le foglie che gli scivolano attorno si posano sul selciato in posa, Un tiglio giovane apprendista di una bottega di arazzi, di ricami arabeschi. Magari quel tiglio non dice niente a nessuno, magari è lì per caso e prima o poi se ne andrà. Ma ai miei occhi è un tono della voce di Genova di dentro. Se ne sta lì, di vedetta, sfaccendata bellezza, come una parola d’ordine, una combinazione. Senza quel tiglio, non saprei dire bene perché, ma è così, non avrei mai avuto accesso al gaio segreto di santa Marta, al misterioso passaggio che porta di là, da lei.
I santi di Genova. I santi di Genova in salita, santi di crosa, Anna e Rocchino, Michele, Bartolomeo, Simone e tutti gli altri della brigata rustica degli orti. I santi di Genova nell’ombra, Siro e Donato, Giorgio, Tarpete, e l’assorta, distinta compagnia degli Evangelisti. Le Madonne sull’acqua, le Marie del Mare, le Grazie dei Marinai. A Genova i santi li tengono uniti in mazzetti, figurine di un paesaggio presepiale immagini di Mani seminati attorno a una devozione casalinga e remota.
Solo Marta se ne sta da sola, in disparte, vegliata dal suo tiglio, raccolta in un’alcova uterina che solo per distrazione hanno chiamato piazza. Chissà che santa è stata, se ha patito tormenti o a transitato la sua vita in letizia, se aveva marito, se se ne è andata che era ancora bambina; serva o regina, non so. E non voglio nemmeno saperlo. Voglio immaginarmela Marta gioiosa, innocente, mite e impertinente, con dentro la sua piccola luce, con dentro la sua piccola follia. E voglio immaginarmi chi l’ha pregata, così come è lei. Credenti in una fede che mi sembrava straniera a Genova: dolce familiarità, giocosa vicinanza con il Grande Mistero. È un piccolo, leggiadro, ricciuto teatro, Santa Marta; cos’altro può essere? Teatro di famiglia o di congregazione, teatro per anime raccolte in dedizione alla rappresentazione della parte gaudiosa del Mistero. Lo racconta il Mistero gaudioso, lo celebra, la scena dei decori. Si assiste al Mistero, così vicini da poter pensare di parteciparlo, dalla galleria che lievita nelle luci che calano in sala a perpendicolo. Le luci di Marta non accendono la verità, la verità è di dentro e solo l’interiore la illumina, ma sciolgono i contorni, dissolvono le forme, fanno dell’illusione una predica. E non è una predica severa: è un parlare agli innocenti.
Vado da Marta per poter credere che c’è qualcosa di buono nell’uomo che sono, bastante a farmi bambino. Come tutti i bambini, e gli allegri innocenti, adatto a comprendere i misteri gaudiosi, adatto ad ascoltare il tiglio di largo Lanfranco, guardare dove guarda lui. Voci di dentro, sguardi interiori della città. Chissà dove guarda e di cosa parla il tiglio di Caffaro, ancora più grande ma meno allegro, che saluto ogni giorno salendo a casa. A chi fa di vedetta, se a un santo o a un segreto pagano; arruffato com’è, forse a una melanconia perduta della città.