Fratellino e sorellina (2001)

In una cameretta della clinica Magnolia, una di quelle camerette per pazienti che stanno male e forse moriranno, in una di quelle cliniche per quei pazienti che non hanno molti soldi ma per quando servono un po’ ne trovano, un uomo sorride tra sé perché ha appena sentito dei passi. Quei passi leggeri di comode scarpe da viaggio gli dicono che ha ancora un pochino di tempo, che il tempo cammina ancora, che camminando non solo va via, ma anche viene. Viene, e forse si ferma.

“Entra, sorellina, vieni. Accendi la luce per favore che non trovo l’interruttore e non trovo nemmeno gli occhiali. La luce piccola, si, tanto ci conosciamo già io e te. Vieni. Vieni, siediti qui e toccami il naso che ho un po’ di freddo.
Si, anche solo con un dito, anche appena a sfiorarlo e mi scaldo subito. Ho preso un po’ di freddo mentre aspettavo. Adesso, se mi carezzi un pochino, passa. Ho un brutto naso sorellina, ma ho bisogno che tu gli voglia bene. Senza questo naso, lo sai, morirò: mi rimane troppo poco senza il naso.”

Una donna sana e bella sta abbracciando quell’uomo che sta male. Si tiene un po’ discosta, in modo da poterlo guardare negli occhi mentre lo tiene, mentre la sua mano lo carezza piano piano, incessantemente.

“Gli voglio bene al tuo naso, mi piace carezzartelo e mi piace anche baciarlo il tuo grosso naso. Ecco, senti le mie dita come lo amano il tuo naso?
Ma devo dirti che mi piace di più quando è il tuo naso che mi bacia e mi carezza. Quando lui viene da me e mi sfiora nel viso e mi cerca; quando scorazza come un animaletto per tutto il mio corpo. E tu sei nascosto dietro di lui come un bandito che mi tende un agguato. Mi facevi paura una volta, lo sai. E ho freddo anch’io, fratellino. Vieni, tieni il tuo naso sulla mia guancia per favore, tienilo lì finché puoi. Così. E così. E così. Si, adesso passa anche a me.”

“Si, ti facevo paura, lo so. Ma anche tu mi facevi paura, se è per questo. Ti ricordi che ci baciavamo e tremavamo? Non le prime volte, dopo. La paura a noi ci veniva dopo, quando prendevamo fiato, quando facevamo lavorare un po’ il cervello. Tremavamo e ci amavamo. Siamo gemelli, sorellina, e è naturale che proviamo sgomento quando ci guardiamo al nostro specchio. Io dentro di te, te dentro di me; chi ci consola a noi sorellina? Se ho freddo io, hai freddo anche tu. Chiudimi gli occhi mentre io con il mio nasone ti chiudo i tuoi. Vieni, entra nel mio sguardo, riposati dentro quello che non vedo. Appoggia la tua mano qui e qui, come una monetina di buona fortuna sugli occhi di uno zingaro che se n’è appena andato all’altro mondo, dove c’è il paradiso.”

La donna è così bella che la stanza si è adattata alla sua bellezza. Per l’uomo malato adesso la sua cameretta è molto simile a un uovo, e gli sembra di sfiorarne il guscio con la testa. La donna è così bella che la luce fluorescente sulla testiera del letto ha preso il colore del suo viso, così che anche il viso dell’uomo ha adesso lo steso colore rosato e terso.

“Dimmi quanto sono malato sorellina. Ho bisogno che me lo dica tu, così ci credo”

La donna tiene ancora la mano sugli occhi del malato; si avvicina più che può in modo che la sua bocca si appoggi all’orecchio di lui mentre gli parla.

“Un pochino appena, appena appena un po’.Vedi che bel colore ha il tuo naso? Il tuo naso sta benone e tutto il resto non può essere così malaccio. Ma se hai paura ti porto via. Andiamocene adesso, finché c’è un po’ di luce fuori. Andiamocene subito, così prima di notte siamo in qualche posto meraviglioso.”

“Dici che dobbiamo scappare sorellina? Ma l’abbiamo già fatto, ti ricordi? Siamo già scappati tante volte, e poi siamo tornati. Quanti posti ci sono dove scappare, mamma mia. E uno più bello dell’altro. Però siamo sempre tornati. Avevamo paura, avevamo paura a starcene soli in un posto meraviglioso. Ci faceva paura a essere così nudi come eravamo io e te quando stavamo soli in mezzo ai luoghi meravigliosi del mondo. E adesso poi è più facile che ci prendano. Se scappi prima o poi qualcuno ti viene dietro. Ti ricordi che lo dicevamo sempre quando tornavamo? Tornavamo per questo, ci dicevamo, perché nessuno ci prendesse mai. Ora mi prenderanno. C’è l’uomo nero lì fuori della porta. Mi prenderanno se scappo, e anche se resto. Sono qui per essere preso, per cos’altro, se no?”

La donna ora prende la sua bellezza e la spalma sul corpo dell’uomo. Lentamente, molto lentamente, come se versasse la glassa di cioccolata su un pan di spagna appena sfornato, ancora caldo e friabile. L’uomo si bea di quel tepore di cioccolata. Chiude gli occhi e si sente come se stesse guarendo. La donna ora approfitta degli occhi chiusi di lui per piangere. Zitta zitta, come una bambina giudiziosa. Le sue lacrime scorrono leggere come i petali di acacia che si posano sulle guance di una sposa di periferia nel bel mezzo di maggio. L’uomo non vede il suo pianto, ma anche se è così silenzioso riesce a sentirlo.

“Non piangere sorellina, ti prego, non piangiamo. Abbiamo già pianto così tanto io e te quando eravamo allegri. Adesso che siamo tristi dobbiamo resistere a più non posso: se piangiamo adesso l’uomo nero di là verrà a prenderti e non mi potrai mai più stringere, mai più.”

“Piango di tenerezza, fratellino, non piago mica di tristezza. Piango perché sei bello: sei così bello che le lacrime mi vengono giù da sole. Andiamo via, ti prego, se facciamo piano li freghiamo quelli di là. Andiamo nel paese qui vicino a mangiarci una zuppa di cipolla. E poi andiamo a fare l’amore. Facciamo l’amore nella macchina, ti farà bene alle ossa. Andiamo su in collina e fermiamo la macchina davanti a un tramonto; ci devono essere un bel po’ di tramonti meravigliosi da queste parti.”

“Hai sbagliato il raffronto, sorellina: bello, volevi dir, come un tramonto. ”

“ No, non sei Mimì, amore mio. E io non sono Rodolfo, vedi? Ho le tette io, e non bevo liquori e non fumo sigari e non scrivo nemmeno poesie. Siamo i due gemelli Kessler, siamo il circo delle pulci, siamo il cappello a sonagli, ma non la Boheme. Non cantiamo abbastanza bene per la Boheme; e poi non ti ho mai sentito tossire.”

“Dimmi dove hai parcheggiato la macchina, sorellina”

“Qui, sotto la magnolia dell’ingresso. Ce ne andiamo, davvero? Andiamo a mangiare cipolle e a bere vino rosso? Andiamo a fare l’amore da ubriachi sopra un precipizio davanti al mare? Bisognerà stare attenti al freno a mano, ma ci divertiremo un sacco.”

“E’ un buon posto, è il posto più bello, sotto la magnolia. No, voglio fare l’amore qui. Lo voglio fare dentro questa stanza e poi voglio che te ne vai, che mi lasci un po’ qui a dormire. Voglio dormire ancora qualche giorno, poi andiamo a cercare il posto più meraviglioso che c’è, un posto dove posso fermarmici un po’. Anche tanto tempo, all’occorrenza.
Vieni, sorellina, facciamo l’amore, quello di quando piangevamo di allegria. Ecco, metti la punta del tuo naso sulla mia, così. Tienimi le mani e stiamo fermi, fermi, fermi. Hai gli occhi chiusi? Si? Si, facciamo l’amore. E adesso che ci amiamo così tanto, ecco che siamo scappati di nuovo. Poi, appena siamo tornati, tu te ne vai. Te ne devi andare prima che l’uomo nero venga a sapere che siamo scappati per fare l’amore. D’accordo?”

“Si, amore mio, si, siamo d’accordo. Farò così, se mi prometti che dormirai davvero tutto il tempo. Che dormendo ingrasserai anche un pochino. E che terrai il naso sempre così bello mentre dormirai. Me lo prometti? Si? Tanto tornerò così presto che non avrai fatto in tempo ad accorgerti che sono andata via. Dimmi cosa vuoi che ti porto per quando torno.”

“No, non portarmi niente sorellina quando tornerai, non voglio niente ora. Guarda il mio pigiama: ho già tutto, non vedi? Vorrei qualcosa, si, ma per quando tornerò io.
Voglio per quando tornerò una famiglia
di tre, di quattro generazioni compresenti, tanto per stare sul sicuro. E voglio una donna che mi ami vegliando su di me come una lampadina, una lucciola è meglio. Una donna che si lasci amare da un canarino che si è posato sulla sua spalla. E canta, canta, canta. Poi voglio un figlio che assomigli a quello che penso dell’universo, che è misterioso e domestico. E a quello che penso della vita, che ce n’è sempre dell’altra Quando tornerò voglio sentirmi libero e cucito, vecchio e ragazzo, padre e figliolo. E anche spirito santo.
Ma finché resto qui sono solo un uomo in pigiama all’ombra di una magnolia che aspetta un passaggio per andarsene.
E amen, sorellina.”