Caro Paolo (5 luglio 1997)
Caro Paolo,
non so se ho fatto bene, in particolare non so se ho fatto come tu avevi bisogno che facesssi.
ti do qualche scians per migliorare il lavoro, però. Ti consegno più di dodici cartelle e in questo modo hai la possibilità di tagliarne quattro, levando tutto quello che è brutto o non ti serve. Come autore non ho la fregola dell’opera intoccabile e dunque fai come è bene che si faccia. Se vorrai lasciare tutto, vorrà dire che hai fatto un buon affare.
Troverai due “xxx” che dovrai sostituire con i nomi dei due luoghi dove comincia e finisce il gasdotto, località che io non conosco. Ci saranno altre imprecisioni nella nomenclatura che tu vorrai correggere.
Mi farebbe piacere se tu mi dicessi -sinceramente- come va la cosa. Cerco di guadagnarmi il pane onestamente e se il lavoro non va bene, naturalmente rinuncio all’onorario. Dico questo perché ho la quasi certezza che quello che è venuto fuori non è proprio quello che ti aspettavi. Del resto non saprei fare diversamente, ovvero, mi pare di aver trovato una chiave di racconto che suonasse interessante al di là dell’aspetto -limitato- delle nostre escursioni. Il testo tecnico da voi preparato, oltretutto, fa egregiamente il suo dovere di servizio. Dunque, spazio alla gazzosa d’autore.
Ciao e a presto.
A un certo punto della mia vita, quando ormai mi sembrava di aver capito già un sacco di cose e di essere avviato a una felice maturità di certezze, mi sono spezzato una gamba. L’ho fatto con tanto zelo e scientifica applicazione che per tre anni nessuno tra i tanti professionisti che ci si sono dedicati è riuscito a rimetterla insieme in un modo purchessia. Questi tre anni li ho passati nell’immobilità e nell’incertezza. Non sono stati anni facili, ma certamente sono stati anni molto istruttivi. Ho imparato molte cose allora, lezioni che ancora oggi mi servono da viatico per la conduzione della mia vita, lezioni che conto di non dimenticare.
La prima cosa che ho imparato, e la pìù importante, è che, per quanto riguarda alcuni aspetti della vita, in realtà non avevo capito un bel nulla, in particolar modo riguardo a certe cose che avevo a suo tempo liquidato nella sterminata riserva delle banalità. La banalità non esiste nella vita, esiste solo la stupidità che classifica come banali cose di per sé molto interessanti. Ho capito in quei tre anni di essere una persona molto stupida, e che dovevo rimediare il più in fretta possibile, perché la stupidità è più invalidante della più orrenda delle ferite.
Nella mia dabbenaggine avevo sempre pensato che non ci fosse niente di notevole nell’atto di alzarsi la mattina e di andare in bagno, niente di più banale, appunto, e, diciamo così, acquisito: un diritto indiscutibile. Errore. Dopo il fausto evento del’incidente, ho impiegato un anno e mezzo per riuscirci di nuovo, ed è stata un’avventura drammatica e ricca di eventi. Vi assicuro che nulla è stato semplice nel raggiungimento dell’obiettivo. Non lo è stato, tanto per incominciare, trovare la forza per fare un primo passo, e poi un altro e un’altro ancora. Ho cercato la mia strada verso il bagno con dolore e passione. Mi svegliavo una mattina pieno di fervore e dicevo: “Bene, oggi posso provare ad arrivare almeno in soggiorno prima di chiedere aiuto.” E mi incamminavo. Come potevo, cercando di farlo con le grucce, e se il dolore era troppo forte, provando a gattoni, strisciando alla fine, o sulla pancia o sul dorso. . Ho affinato l’ingegno in quegli anni, ho imparato a usare al meglio ogni piccola risorsa del mio corpo e del mio animo. E ho visto un sacco di cose nei venti metri che dividevano il mio letto dal bagno. La lentezza amplia le facoltà percettive, moltiplica la vista. Tra il bracciolo della poltrona e il tappettino sotto il lavabo c’è un universo di particolari che non meritano di essere ignorati, particolari di un paesaggio sterminato, se si striscia carponi facendo un metro ogni quarto d’ora.
Alla fine mi sono messo in piedi, alla fine, i professionisti che per tre anni si erano interrogati dubbiosi, si sono lasciati andare a un sorriso sbieco: “Mah, potrebbe farcela, lei ci provi.”
Ci ho provato. Ho provato a vivere camminando sulle due zampe, ho provato a vivere senza pensare che nulla fosse davvero banale, nulla un diritto acquisito.
Sono passati dieci anni ormai e continuo a camminare. Lo faccio mettendo ogni mattino il piede sinistro giù dal letto come se fosse un dono inaspettato e impagabile. E nulla del mio modo di vivere è più quello di prima. E radicalmente diverso è il mio modo di pensare.
Sono diventato lento, ho imparato ad amare la lentezza e a servirmene. Andando lentamente si vedono si fanno e si vivono molte più cose che andando di fretta. Sembra una stupidaggine solo se non ci riflettiamo abbastanza, solo se dimentichiamo che la vita non è semplicemente una meta da raggiungere, ma un viaggio verso quella meta. La vita è fatta di tutto quello che succede viaggiando verso una meta. E in questo modo è ogni giorno piena di sorprese, di bellezze, di accadimenti.
Si può arrivare sul Cervino in elicottero o a piedi, ma il viaggio non è lo stesso, e, pensateci, neppure il Cervino lo è. O meglio ancora: andare a Parigi in aereo sono tre ore di un nulla indecifrabile, andarci in treno è un viaggio interessante, andarci in automobile ancora di più. Andare a Parigi a piedi può essere un viaggio che vale una vita intera. E Parigi, naturalmente, non potrà essere la stessa città, non la stessa meta, per chi va in aereo e chi a piedi. Pare un esempio impossibile, ma non lo è. Il regista Herzog è partito da Monaco di Baviera per arrivare a Parigi a piedi. La sua antica insegnante di cinema stava morendo e a lui parve che il suo viaggio potesse valere come un voto, come un auspicio; e quando arrivò lei era ancora viva, e lo rimase per molto.
Io non faccio viaggi così intensi, non ho ancora trovato il coraggio e la sensibilità adeguati. Non ho al momento voti da sciogliere. Vado a piedi perché è ormai il mio modo naturale di andare dove mi è possibile. Vado a piedi perché è sempre un grande viaggio, come a suo tempo era un viaggio arrivare in bagno.
Certo, sono un uomo privilegiato: nessuno mi fa fretta, neppure il mio editore. Mi campo scrivendo storie e raccontare storie è un modo assai lento di comunicare, infinitamente più lento della televisione, non vi pare? Vado a piedi anche quando scrivo, anche in questo momento. Le parole si susseguono come piccoli particolari di un paesaggio che si va formando, ma ciascuna, a suo modo è un messaggio intero, un microscopico universo che merita di esser guardato. Cerco per questo di non usare parole a vanvera, cerco di trovare per ciascuna una ragione essenziale. Voi che mi state leggendo, perdonatemi se non è sempre così.
Vado a piedi ovunque e in ogni stagione. Vado a piedi sulle colline di casa mia, vado a piedi nella città di New York. Vado a piedi anche a Milano, e facendolo ho scoperto che non è così malaccio come me la facevo. A volte ho delle mete, a volte no. Ha volte non ho da raggiungere nessun posto in particolare, ho solo voglia di andare a vedere cosa c’è lungo uno strada, un sentiero, una traccia. Di questo ho bisogno: almeno di una traccia, di un segno, di un precedente passaggio. Sono un camminatore di paesaggi domestici. Nato in una famiglia di contadini, ho ancora oggi la mentalità di un contadino e le sue idiosincrasie. Per questa ragione non apprezzo la natura di per sé, ma l’apprezzo in quanto visitabile e addomesticabile, nel suo possibile e felice rapporto con l’uomo. I contadini non capiscono l’ecologia senza l’uomo. Un paesaggio selvaggio, selvaggio in assoluto, fa loro paura, e invece che un segno di vitalità libera leggono in esso la presenza della morte, della malattia, del pericolo. Un paesaggio è affascinante per loro, e per me, quando vedono in esso un ordine, un’eleganza, una bellezza che li possa comprendere; qualcosa che
faccia loro dire: qui io posso fermarmi e stare in pace, qui c’è vita per me, qui sono al sicuro e posso rendere questo luogo ancora più accogliente.
Naturalmente i luoghi veramente selvaggi sono rarissimi. Neppure le più alte montagne lo sono nel nostro paese, e nella gran parte sono addomesticate nel modo peggiore. Così, per quello che ho visto è nel mondo intero. Ho viaggiato a piedi per una settimana nel grande deserto dell’Haggar seguendo piste e segnali millenari, e incontrando ovunque pure tracce fresche: bottiglie di plastica, auto abbandonate, anche qualche fucile.
Ma domestico non significa banale. Per chi non ha dell’avventura l’idea un po’ sadica della penetrazione, l’ossessione dell’essere primi, del violare una qualche verginità, per chi sa viaggiare con sguardo attento e mente libera, ci sono infinite occasioni di meraviglia ovunque allunghi i suoi piedi. Io ad esempio mi sto dedicando da tempo a perlustrare le colline di casa mia. Sono a due passi dalla città, ma sono stupende. Hanno il mare a mezzogiorno e il fiume a settentrione. Sono fatte di boschi e di vecchie campagne, di pievi e di forti. Non sono riuscito ancora a conoscerle tutte, continuano a sorprendermi particolari inaspettati, bellezze struggenti. Mi sono perso più di una volta per mulattiere che spariscono nella selva, vagheggiando mitici passaggi tra una costiera e un’altra. Mi sono “quasi” perso, ma ho sempre all’ultimo ritrovato la strada di casa. Perché è impossibile perdersi davvero se il camminare non diventa una gara contro qualcosa, un’ossessione della meta. Se si è abbastanza liberi per capire l’imprevisto, per saperlo addomesticare.
Io ho addomesticato il gasdotto, il gasdotto che ha addomesticato le colline e le montagne. Ho fatto un sacco di strada in groppa al Tubo, e il Tubo mi ha spesso riportato a casa quando -sembrava- che mi fossi ormai perso.
A dire il vero non l’ho mai visto io il Tubo, quello, che mi dicono, attraversa i mari e i continenti per decine di migliaia di chilometri. No so come è fatto, quanto è grande, se ha un colore, semplicemente perché non si vede. Un pezzo parte proprio da casa mia, da una bellissima baia nascosta nelle anse interne del Golfo, e sale sull’appennino prima di scivolare giù per la pianura Padana. So che c’è perché incontro i suoi segni, i segnali a forma di triangolo e di buffo cappelletto che mi dicono: “Ehi, qui sotto c’è qualcosa.” Accanto a quei segnali, o poco discosto da essi, c’è sempre un sentiero, a volte una sottile traccia, altre più evidente. Ma c’è, per fortuna.
Triangoli e cappelletti li ho sempre incontrati per caso, nei posti più impensati, in mezzo a forre impenetrabili, ai bordi di campi di grano, su per ghiaioni senza orrizonte, a lato delle antiche mulattiere del sale e del vino. Li ho incontrati cercando una via e un orientamento che la topografia non ha più.
Chi cammina lo sa. Se nulla è più selvaggio, quasi tutto si sta inselvatichendo. Fuori dalle città e dalle loro reti di comunicazione, fuori dai pochi tragitti turistici, dai pochi e conosciutissimi -sempre gli stessi- itinerari, regna l’abbandono e la dimenticanza. Il reticolo di percorsi e di punti di riferimento che per migliaia di anni ha funzionato, ed è stato vitale per ogni genere di attività, ora non serve più a nessuno. Come non serve più coltivare i boschi, preparare pascoli, dissodare terra, onorare santuari. Già, i santuari silvestri. Ce ne sono ovunque, nei luoghi più belli e spaesati, come se la natura, e la vita in essa, fosse un tempo così stupefacente da richiedere per abitarla una costante partecipazione dell’anima.
Chi cammina trova insopportabile che si sia rinunciato a tanta bellezza, a tutto quel ben di dio; ma così è e non c’è proprio più niente da fare. Allora può capitare che gli animalisti più sinceri, sempre che siano “in viaggio”, abbiano in simpatia i cacciatori che ripuliscono e ripristinano vie, gli obiettori di coscienza i militari della forestale, e io -e chissà chi altro- mi sia fatto amico del Tubo. Il Tubo che è lì sotto e il sentiero che mi porterà da qualche parte, che rimette in rotta la mia bussola impazzita.
L’ultima volta che ho incontrato il Tubo è stato l’altro ieri, mentre già stavo scrivendo le cose che ora leggete. L’ho incontrato a poco più di un’ora di cammino da casa mia, mentre cercavo di uscir fuori da un bosco di pini distrutto da un incendio, dove era andato a perdersi un sentiero che fino a pochi anni fa portava a una fiorente cascina. Ho trovato il paletto con il suo triangolino, la traccia appena velata di more novelle, e ci siamo fatti compagnia fino alla periferia della città e a un autobus.
La penultima volta invece… Beh, la penultima volta è stata una cosa speciale. È stata la signora SNAM in persona a chiedermi se mi sarebbe piaciuto fare un po’ di strada sul suo Tubo. Figuriamoci, che no! Pagato, magari. E così mi sono messo in strada al soldo della Signora in cerca di nuovi passaggi, per terre a me sconosciute, in groppa al Gasdotto, col naso puntato su triangoli e cappelletti. Sicila, Molise e Emilia.
E ne sono venuti fuori tre piccoli viaggi ricchi di domestica avventura. Itinerari strani e originali, naturalmente lontani dalle escursioni abituali, quelle che ormai bisogna mettersi in coda buoni buoni. Sono stati degli assaggi, una specie di prova generale. Secondo me si potrebbe fare tutta l’Italia da XXX a XXX avendo come guida il Tubo, e quello si che sarebbe un viaggio come si deve. E secondo me sarebbe anche l’unico modo di farlo a piedi questo Grande Viaggio, visto che sono spariti ormai i grandi tratturi, le romee e le saliere che fino a pochi decenni fa lo rendevano possibile nella forma tradizionale, quella dei pellegrini, dei pastori, dei commercianti, dei fuggiaschi. Tre o quattro mesi della vita per “vedere” l’Italia, per toccarla e viverla l’Italia, abbastanza lentamente da poterla addirittura capire -forse- in ogni gradazione e sfumatura di paesaggio e di uomini, di lingua e di luce, di civiltà e naturalezza.
La Signora è ricca, naturalmente, ma tra le sue ricchezze non aveva mica pensato che ci fosse anche questa, modesta forse, e poco per le Borse europee: una traccia ben tenuta e sicura per dare una bella occhiata a un paese lungo duemila chilometri. E, lo posso giurare, non si sente odore di gas andando lungo il Tubo, né ho mai notato costruzioni e opere invasive, prepotenti e sgraziate. Niente di paragonabile a una funivia nel bel mezzo di una montagna ex vergine o a un baracchino di souvenir al centro di un monumento di plurimillenaria civiltà.
Ognuno dei tre piccoli viaggi ha avuto un non so che, un qualcosa di “suo”, un’unicità che, non ho dubbi, non è dovuta tanto all’eccezionalità delle cose viste, quanto alla ‘stranezza” del punto di vista. Domestico ma non turistico, familiare ma non standardizzato. Ho iniziato la traversata dell’Italia e magari dell’Europa (!!) inaugurando un nuovo punto di vista, una nuova percezione del paesaggio. Ho visto paesi e foreste, vulcani e montagne, muraglie e mari già visti da migliaia di altre persone con uno sguardo che nessuno prima di me ha avuto. Nessuno, se non i tecnici che hanno posato il Tubo e quelli che ogni tanto vanno a dargli un’occhiata. Niente è più vergine nel mondo, niente veramente selvaggio, ma, per fortuna, ancora infinite sono le possibilità di un nuovo sguardo, un primo sguardo. Uno sguardo che ha avuto una ricchezza in più, secondo me. La libertà che viene dal non avere un obiettivo, una meta irrinunciabile. Me ne sono andato a zonzo sapendo che non sarei mai potuto arrivare alla fine del Tubo, che l’unica mia disciplina era la necessità di nutrirmi e di trovare un ricovero pr la notte; ho viaggiato libero da una meta definitiva e preordinata, e dunque libero di considerare ciò che incontravo per strada come una meta in sé. Libero di fermarmi di fronte a uno spettacolo inatteso, a un particolare curioso, libero di guardare ogni cosa per quello che ai miei occhi
valeva, e non in base a un programma che la comprendeva o la escludeva.
Ecco, al mio ritorno, seduto alla scrivania, cosa ho scoperto di aver portato a casa con me.
Il mare di lava sulla piana dell’Etna. Inoltrarsi a piedi fin che è possibile, fino a quando si prova la sensazione viva di essere nel cuore di un immenso accadimento della Terra.
La pasticceria di Randazzo. Ottocentesca negli arredi, ricca di zuccheri e paste di dolcezza barocca. “Si fanno torte in foggia di Cappello di Signora, c’era scritto su un cartellino, con una antica calligrafia maiuscola.
Fermarsi alle sorgenti dell’Alcantara, cercare nell’acqua limpidissima, negli anfratti dove i rivi si nascondono tutte le altre Alcantara del Mediterraneo. L’Alcantara Egiziana, Libica, Andalusa, Cretese.
Il cambio di stagione in alta quota. Le foglie novelle degli ontani della Colla che friniscono come cicale al vento di occidente.
L’osteria di Malopasso e il suo pane, il suo vino, il suo salame, e l’uomo che li porge in silenzio.
Il vulcano sopra ogni orizzonte. Il mutare perenne dello schermo di nuvole sopra la vetta, come se la pietà del dio del fuoco volesse impedire la vista diretta di una forza sovrumana.
Un pazzo albergo dal nome tedesco e dai decori ellenistici nel cuore dell’Irpinia. Il cibo incredibilmente gustoso e la dignitosa signorilità di chi lo serve.
Il cratere del terremoto di Irpinia. Il paesaggio spaccato e ricucito dalla selva. Si sa che qui è accaduto, ma non lo si vede: la natura è ancora così potente nell’era ultraelettronica ha già medicato e rimarginato quello che gli uomini non potranno forse mai medicare e rimarginare.
Una salita diritta e dura, una macchina per ossigenare, dispensatrice della mitica “euforia del podista”. L’orgoglio di un passo regolare e insistente che non si fiacca.
I più grandi e maestosi faggi che io abbia mai visto. Monumenti vegetali così grandi che un colpo d’occhio solo non basta per abbracciarli tutti, creature di una eleganza che toglie il respiro che la salita non è riuscita a rubare. Alberi coltivati, accuditi per la loro bellezza. C’è dunque amore in questi luoghi per qualcosa che solo la stupidità potrebbe pensare inutile, o secondario. Questo amore lo si vede ovunque nella grande foresta, anche ben oltre la traccia.
Un anfiteatro nella campagna, quattro portali di finezza etrusca. Sotto le loro volte hanno sostato per secoli i pastori delle grandi transumanze. Stanchi, si, e poi? Stupiti, compresi, estranei o partecipi di una storia e un’arte che non era la loro, o che, semplicemente, avevano scordato che fosse stata anche la loro.
Un valico, Una muraglia che lo segna. Una muraglia buona, che non è stata posta per separare, ma per proteggere dalle bufere chi va e chi viene. Un valico, non so come, mi turba sempre, mi fa fermare indeciso, forse anche timoroso. Un valico si percepisce come un passaggio traumatico. C’è sempre un’osteria o una locanda ad un valico, e io mi ci ficco sempre dentro, perché c’è bisogno di fermarsi, di riposare, di riflettere. Perché anche il clima, ad un valico, è imprevedibile e sconcertante. Guardo un versante e poi l’altro e sento che sono radicalmente diversi. Lo sento, ma non è così: il valico è un’idea, innanzitutto, e le idee mutano le percezioni. Il Tubo oltrepassa chissà quanti valichi; naturali, politici, culturali. C’è chi sta cercando di innalzarne di nuovi di zecca in panorami dove non sembra sensato che ci possano stare.
Un crinale di bassi lecci e di prativi che non finisce mai, il crinale dell’Appennino, che qui come in Molise, è interiore, nel cuore dei cuori del paese. Mi sconcerta perché non vedo il mare e non posso neppure intuirlo oltre l’orizzonte: l’Appennino mio, di casa mia, ha ovunque un punto per darsi all’aria di mare, ad una striscia di azzurro là in fondo.
Valli, valli, valli, dure e spinose, addomesticate con fatica disumana e ormai pronte a tornare selvatiche in un paio di stagioni.
Cascine di montagna, vite incomprensibili già finite nella notte dei tempi. Opere in pietra, case e muraglie, che danno un’idea di un ciclopico niente affatto mitico e meraviglioso, ma terribilmente concreto e quotidiano.
Il ruscello che diventa torrente e poi si fa rio. Davvero Acqua Cheta. Una coreografia di luci tenui e di verdi digradanti dal cupo al cristallino. Rumore sottile dell’acqua che ti dice, se ascolti bene, che più in là non è più così. Infatti altra coreografia più in là: il melodramma dei dirupi a falesia che schiantano il rio giù per inferi vertiginosi. Vertigine subito dopo una quiete da dipinto dell’Arcadia. È così che la natura non si annoia mai.
Monterotondo è la certezza che il viaggio sul Tubo non finirà mai. Da qui la traccia la si vede valicare decine di crinali e poi perdersi dove non si sa. Dove? Dove potrei arrivare cavalcando il Tubo? In Russia. A Capo Nord? O oltre ancora. Certamente finiranno prima i miei piedi. Ed è una brutta notizia per loro.
Troverete qui accanto note esaurienti e precise sui percorsi e sulle cose viste, il merito delle quali non è mio, ma di chi mi ha accompagnato. Il loro punto di vista “pratico” è prezioso quanto se non di più di quello “letterario”. Certamente assai più utile. Troverete immagini fotografiche che raccontano anche loro con un punto di vista autonomo e originale, anche quando il loro autore è lo stesso di queste pagine. Ma l’unico vero racconto di viaggio, non potrà che essere il vostro, quello di chi vorrà seguire ancora una volta le tracce del Tubo, allungare il passo oltre i finali di tappa che il poco tempo di chi scrive ha dovuto collocare arbitrariamente. Questo è, davvero, un viaggio che non finisce, questo è un racconto ancora tutto da scrivere. Con i piedi, con la penna, con la voce, con quello che volete. Con la vita, insomma.