Bocca di Magra (3 luglio 1992)
Eccoti come promesso il raccontino. Sono tre cartelle e mezzo. Forse non ti piacerà, forse è illegibile. A me non sembra male, dato l’argomento, dato me.
Consigli per il traduttore: non cerchi la lettera e s’ingegni con l’intelligenza del gergo di casa sua. Se è Inglese. Se no, amen.
Ti ringrazio per la stima che reputo tuttora immotivata.
Il titolo lo scelga la redazione.
Con affetto
Maurizio Maggiani
Ogni settembre, a metà settembre, da un po’ di anni vado a trovare un vecchio, per l’ultima volta dell’anno nella sua casa d’estate. È il giorno del suo compleanno e mi aspetta tra i rosmarini sassosi del suo giardino con un bicchiere in una mano e la bottiglia del vino nell’altra. Ogni volta. E mi abbraccia, così, come può, e mi versa da bere e io bevo da quel bicchiere mentre entro nella sua casa e me lo stringo un poco alla mia spalla, ancora dopo anni con cautela, che è un vecchio grande e grosso e tuttora potrebbe darmi uno schiaffo da farmi scarnire la guancia. Poi mi siedo su una poltroncina di vimini dove il suo studio si apre all’infinito teatrino di spiagge e montagne e paesi e campi; e dentro ogni cosa -insediato- annoto il dolce fiume tuttocurve, la dolce madre di ogni acqua Magra, che gli orizzonti e i marmi e i castelli e persino gli uomini di quella morbidità ne risentono e se ne colorano. Incerto, tra i pini della collina, intuisco il movimento finale, il darsi del fiume al suo mare, il scivolare dell’acqua sull’acqua che traccia sottili variazioni di trasparenza e spessore. Il vecchio mi parla, se posso imparo, e intanto la Bocca di Magra si intiepidisce di tramonto; un sospetto di fine estate insinua nitori agghiacciati nei rosachiari dei marmi apuani.
Quel vecchio è un testimone occhiuto. Occhiuto è il suo pensiero, traguardante per cinquantanni oltre i punti possibili di svolta, occhiuta la memoria, ferma annotarice nelle epoche, delle epoche ripugnando l’opinabile torcendone il torto. Ed è poeta -guardacaso- a nome Franco Lattes, per le ragioni della vita firmato Fortini.
Un giorno di altri tempi, un biglietto di poche righe in versi da questa casa è stato spinto fin oltre la riva sinistra del fiume. Per l’assenza di ponti fu portato da un traghettatore: “Sereni esile mito/ filo di fedeltà/ non sempre giovinezza è verità/ un’altra gioventù giunge con gli anni/ c’è un seguito alla tua perplessa musica….” Il messaggio fu raccolto “venivano spifferi in carta dall’altra riva” oltre i canneti e gli olenadri che a quel tempo onoravano il silenzio del fiume negro “Un fiume negro -aveva promesso l’amico- / un bel fiume negro d’America…” da un uomo assai più minuto e poeta di altre ragioni. Sereni, Vittorio Sereni. Minuto, penso, e lo ricordo ancora nuotatore non fragile, ma raccolto in una sua interiore necessità di viandante parco di bagaglio, accondiscendente al disagio che segna in perenne i gesti della vita e del pensiero di chi è stato prigioniero e prevede per sé un destino di ulteriore prigionia; minuto per la consistenza delle sue ossa, minuto per la sua grandissima poesia. “
Sarei io dunque il superstite voyeur, uno scalpore
represso tra le rive, una metastasi fluviale?
uno che sforna copie di ore lungo il fiume,
di stasi e turbolenze del mare?
Viene uno, con modi e accenti di truppa da sbarco
mi si fa avanti avvolto nell’impermeabile di chi,
stato a lungo in un luogo di diverso tempo
e ripudiatolo, si affaccia per caso, per un’ora:
“Che ci fai ancora qui, in questa bagnarola?”
“Elio!” riavvampo “Elio. Ma l’hai amato
anche tu questo posto se dicevi: una grande cucina,
o una grande sartoria bruegheliana….
…………..
“Ma tu” insiste “tu che ci fai in questa bagnarola?”
“Ho un lungo conto aperto” gli rispondo.
“Un conto aperto? di parole?”. “Spero non di sole parole”
Un altro testimone delle epoche che di questi cinquantanni hanno fatto lo strazio, due scolte che si interrogano dalle due rive del fiume e interrogano. Sereni da un poco se ne è andato; resta “l’interlocutore”, ancora attestato all’altra riva, ma il suo parlare il giorno del suo compleanno, davanti al teatro del mondo schierato davanti alle ridicole poltroncine di vimini, non suonava echi sordi. Ancora spifferi di carta che cercano traghettatori, che vogliono recapiti, attendono risposte incerte.
E gli altri che da questa foce di fiume son passati (quel famoso invidiato gruppo) sono forse -appunto- soltanto trascorsi. Non hanno segnato né sono stati segnati da questo paesaggio interiore più di tanto; spettatori acuti o meno, ammorbiditi di calura e salsedine. “Al buio tra canneti e foglie dell’altra riva/ facevano discorsi: sulla -è appena un esempio-/ retroattività dell’errore. Ma uno di sinistra/ di autentica sinistra (mi sorprendevo a domandarmi)/ come ci sta come ci vive al mare?/……. Anno: il ‘51. Tempo del mondo: la Corea”
Elio, il Vittorini, e Bassani, la Duras, Calvino, Einaudi, Piovene Bianciardi Todisco Soldati. Non fu quella che durò anni bastanti a qualsivoglia idea una congrega, non un progetto, men che meno un’architettura. Vissero dividendosi e alternandosi in vecchie case badando alla riva più comoda per la spiaggia o il transito dei giornali. Alcuni rimasero a lungo, altri sarebbero forse rimasti se altro di irrimediabile non fosse successo, nessuno si fermò abbastanza a lungo perché la dolce madre tuttacurve potesse in qualche modo prenderne atto ed accoglierli. Tutti ne hanno scritto nei loro diari, nelle corrispondenze, ma ancora ora ne viene poco giovamento. Un paio si sono spinti addirittura nella vicina città -quella che sciaguratamente qualcuno ha pensato di nominare la città dei poeti- e tutto quello che hanno portato indietro è stato un dentista per i casi urgenti e diversi alti muri di fabbrica.
Solo i testimoni sono rimasti e rimangono -ognuno dei due nel suo modo possibile- a lavorare il fiume, a cercare di tracciare qualche segno persistente sul mare; accogliendo e rigettando, unici costruttori del paesaggio, unici custodi, così diversi nei loro corpi e differenti nei loro pensieri, così necessariamente vincolati a quel tratto di fiume.
Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia.
Così ancora ha ragione di esistere al di là dell’apparenza di un paio di trattorie e di qualche villetta esentasse, la Bocca di Magra, il posto di vacanza.
Le citazioni in corsivo sono tratte da:
Vittorio Sereni, Un posto di vacanza (in Stella Variabile)
Franco Fortini, 1954 (in L’ospite Ingrato) e I Lampi della magnolia (in Paesaggio con Serpente)