Piccole storie del mio guardare sbieco
Forzando età dopo età l’angusto passaggio della mia debole vista, ho imparato che lo sguardo è qualcosa di assai diverso di un semplice atto: è la mano di un mio pensiero che si distende fragile portando con sé la sensualità del tatto, ben al di là del breve territorio del senso che lo ha generato.
È un orizzonte, è un’intenzione, è il sentimento di segni che si disvelano e si confondono nell’universo; tracce di un reale tanto vasto da generare ancora –sempre- meraviglia. Per questo il mio sguardo persiste oltre la semplice visione delle cose. Ed è una fortuna, perché altrimenti l’angolo sbieco da cui vedo la vita mi renderebbe irrimediabilmente ottuso.
Lo sguardo tocca e ascolta, costruisce e manipola il mondo. E il mondo lo stupisce, lo ferisce, lo fa prigioniero, e infine –forse- lo libera. Forse l’universo delle cose e dei viventi non l’ho mai visto davvero, eppure il mio sguardo lo possiede e ne è posseduto da sempre, ch’io ricordi.
Questi sono racconti scritti con la fotografia, il modo più diretto e pratico che ho trovato per far raccontare il mio sguardo. Raccontano ciò che le parole da sole non sanno dire come vorrei. Sono storie fantastiche del guardare. Sono tutti racconti di intimità, la più grande intimità che ho imparato ad esercitare con l’applicazione dei miei sensi tutti allo sguardo; intimità con il mondo, intimità con me stesso. Ci sono parole, parole scritte, e sono la voce del mio sguardo.
Dolcezza e rancore
Racconto del mio vedere sbieco e ravvicinato attorno allo sguardo bovino, caprino, equide e suino.
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