Il porto di Genova (2002)
Non so quando è cominciata la storia. Saranno stati ragionevolmente gli ammiragli del corpo si spedizione repubblicano per le Gallie che hanno studiato bene la cosa e alla fine hanno deciso: qui va bene. Non è escluso che prima di loro i Cartaginesi, o addirittura i Fenici, gli eroi del libero mercato neolitico, abbiano valutato e accettato il rischio di avere a che fare con una gente barbara e silvestre, scarsamente affine alla trattativa, pur di stabilire una base avanzata per i loro arditi sogni di monopolio da qui all’Oceano. Sta di fatto che certi uomini, ceffi salmastri di chissà quali paesi e lingue e usanze, si sono incontrati per caso o ragione sulle spiagge di Sarzano venendo dal mare, e si son detti: “Si, questo è un buon posto per metterci al riparo e barattare il bottino. Torneremo qui ancora quando ne avremo, passate la voce.”
E a un certo punto delle storie, Genova si è fatta e si è fatta porto. In un luogo non propriamente adatto, apparentemente faticoso e esposto ai rischi di un orizzonte troppo aperto. C’è da immaginare che più che marinai per un bel pezzo si siano arruolati cavatori e scalpellini e sterratori, attività di certo più consuonanti ai rupestri nativi. Non c’è, ma bisognerebbe fare un monumento al primo coraggioso che, a rischio della vita, ha fatto l’esperimento di buttarne uno in acqua per vedere se galleggiava, e stando a galla ne traeva qualche insegnamento utile all’arte che avrebbe dovuto apprendere. Hanno imparato a stare a galla, eccome, e non certo per sguazzare; e hanno pure imparato a tenere a galla ogni genere di cosa che valesse la pena di spostare da qui a là. Un là che si è presto fatto indefinito oceano, indefinito confine. Questo è un porto: il luogo dove ogni cosa si muove per l’altrove.
Qualunque cosa possa esserci stata da queste parti prima del porto, quando il porto si costituisce le sue ragioni formano tutte le altre antecedenti e susseguenti. Il Porto è la forma della città, è la sua lingua, la sua ragione. Non semplicemente la sua fabbrica, o il suo negozio, o la sua scuola, o il suo governo. Il Porto è la Città, e la città ne è compresa. La sua vita è talmente grande, e vasto è il suo corpo, che non bastano i governi, e le loro guerre e le loro politiche, a farlo vivere o morire. Sono i porti che creano le città, e con le città i governi e le politiche, non le politiche che creano i porti. Quando ci si provano, la cosa funziona per un attimo, per una o due generazioni, poi le banchine si interrano. E il porto muore, e la Merce va a trovare acqua per muoversi altrove. L’acqua è la madre della Merce.
E la Merce è la legge che viene prima di ogni altra legge, il governo che decide per i governi, il bene che stabilisce tutti i beni. Almeno in questo mondo. La Merce ha creato i porti in virtù delle sue regole, delle sue abitudini, delle sue necessità. In virtù del fatto che la Merce è fatta di cose e di uomini in movimento, e ha assoluto bisogno di luoghi dove fermarsi appena un attimo a prendere fiato e a riflettere su come diventare sempre più bella e preziosa. Prima di cessare di essere Merce e diventare un’altra cosa: diventare cose che si consumano.
Finché la Merce è in movimento, non si consuma, ma si arricchisce. Finché la Merce è in viaggio è sacra. Nessuno la possiede, ma gli uomini l’accompagnano, l’accudiscono, la trattano, la toccano e la smerciano senza poterla avere per sé. Gli uomini sono spesso parte della Merce. Chi lavora nel porto, qualunque sia il suo lavoro, dal più bestiale al più fine, lo sa; sa di essere soggetto alla sua regola inesorabile, al suo potere assoluto; e non pere questo se ne sente schiavo, ma tutelato da una dignità quasi sacerdotale. La Merce pretende la massima attenzione e tutte le cure, la Merce non apre e non chiude, non ha orari e riposi, non ha comprensione per il freddo o la fatica. La merce è valore e questo valore deve aumentare man mano che procede nel suo viaggio. Nessuno può chiedere alla Merce di presentarsi quando fa comodo a lui, nessuno dà gli orari, è lei che ordina di essere pronti a lavorarla nello stesso istante in cui appare. E se c’è mareggiata o neve o macaia da non reggersi in piedi, non gliene frega niente alla Merce. E nessuna guerra è stata vinta contro di lei. mai fino ad ora. Il Porto è il luogo dove si stabiliscono e si mantengono le paci.
Il Porto è una convenzione e una fede. Ma il Porto è innnanzitutto il luogo perfetto degli incroci di venti, acque, stagioni e stelle. Il Porto è un punto astronomico, poi un punto geografico, poi un agglomerato di forze radianti. Perché si potesse fondare il porto di Genova, sono dovuti tornare conti di una complicazione inaudita, giochi di prestigio tra correlazioni a prima vista impossibili. Chi pensa al Porto è autorizzato a pensare all’antica. Che piaccia o no, il mare, le stagioni, i venti sono tutta roba antica. Anche il ferro delle navi, se è per questo, e la nafta e il motore a combustione interna sono un bel po’ vecchi. La gran parte della Merce, del resto, è fatta di roba antica, molto antica. E non c’è modo che si trovi un modo più moderno dell’acqua e del ferro per farla circolare. Gli aviogetti portano spigole e diamanti, non manzi, bauxite e cotone.
Il Porto vive di cose vive. Il Porto è un corpo vivo. Tanto grande e tanto vivo che, all’apparenza, pare lento. Ed è lento, se lenti sono i diciotto nodi di un cargo, i tre mesi di una stagione, l’evoluzione ciclonica delle correnti, i sei mesi per la raccolta del riso, le tonnellate di portata di una draga a cucchiaio. Il porto è veloce quanto è veloce la circonvoluzione terrestre, la speculazione sul grano, una rivoluzione in America, un colpo di Stato in Africa. Veloce come la fame dei derelitti, come la fortuna di un magnate, lento quanto la rotazione di un radar e la carenatura a brago e raschietto. Il tempo del porto è il tempo di un corpo vivo. È ritmo. Il ritmo di un corpo così grande è lento solo se non si hanno orecchie abbastanza grandi per ascoltarlo in tutta la sua ampiezza. È anche un canto. È la Merce che canta, con tutta la polifonia delle voci degli uomini, delle macchine e di cose del mondo.
Amo la città del Porto, non faccio altro che camminarci dentro, e guardarla e sentirla. Nell’atrio ormai dirotto della vecchia casa dei Carbuné, alla Pietro Chiesa, dove il grasso del nerofumo ha intriso ormai anche le fondamenta, si può ancora leggere con una certa fatica l’iscrizione che è stata lì incisa cento anni fa: Ricorda che un lavoro, anche il più umile, quando è ben fatto crea bellezza.”
Appunto, il grande porto della città di Genova è anche bellezza.