Cuba Che al Mio Paese Era Ancora Inverno (27 marzo 1994)
Ridono i bambini per tutta Cuba. Ridono e forse sono felici. O così mi pare e non conosco la verità. Ma ridono -li vedo- e hanno mamme giovani di grande culo e grandi amorosi fianchi e padri snelli e mezzosorridenti. E tutti sono bianchi o neri o anche solo olivastri ma fanno risolini in ogni dove e chiamano papito e chiamano mamita, che al mio paese con quella voce ci chiaman la nutella.
Tutto il giorno i padri e le madri parlano con questi bambini ridenti e forse per fare questo non lavorano più, né per la rivoluzione, né per altro; ma stanno alle finestre dei paesi e delle città e passeggiano per le strade e cavalcano per i tratturi con figlioli dondolanti sulla sella, sferraglianti nel sidecar, incannati sulla bici, o semplicemente caracollanti per mano.
Poveri giovani uomini, povere giovani donne, cotonina e niente orologio, cosa ne faremo di loro per 10 u.s. dollar cadauno? Quel che vorremo, non c’è dubbio; basterà anche di meno per levarci tutti i capricci che ci passeranno per la testa e per le brache. Ancora un poco, ancora un po’ di pazienza e ci potremo comprare tutto in quest’isola non proprio tropicale. Ma intanto i bambini mangiano gelati mantecati e ridono e vogliono pulirsi il naso con il fazzoletto rosso che il potere popolare ha consegnato loro perché rammentino che Cuba è libre solo se loro avranno voglia di ostinarsi.
Colano i gelati gialli e violetti per tutta Cuba. Fanno pozzette tra i piedi delle file alle fermate degli autobus, i micidiali torpedoni dal nome macumbo di guaguaqua, perché è proprio così il rumore che si sente quando si fermano a tirar su il popolo, già stanchi di tutta la strada che hanno fatto per venire dalla santa russia fin qui, neri di un nero ormai oltre il catrame e il furor di fumo pecioso che spurgano da ogni dove. Gocciolano i gelati di crema e cannella davanti alle delegazioni del partito comunista, lambiti da ometti smilzi e lacunosi che di lì a poco terranno riunioni decisive per l’infinita guerra contro la domestica cucaracha succhiando gelato al fresco del patio, a cavallo di grandi seggioloni a dondolo. Ormai puri fantasmi, i cremini riempiono dei loro gusci, scatolini di carta che potrebbero sembrare barchette se ci fosse una ragione per così tante barchette nel mezzo della città, i bidoni vuoti della benzina che non c’è più, bidoni ridipinti di rosso a ogni crocicchio, davanti a ogni scuola, policlinico, cine, davanti alle pizzerie habanere, di fianco alle discoteche comuziali di Cienfuegos. Gocciolano, e nello squagliarsi, in tanti che sono formano rivoli e ruscelli di buon latte, dolce del dolce succo della canna che nessuno al mondo vuole più. Ma che tra i doni del buondio è tra gli eccelsi, diceva secoli fà chi tra gli schiavi durava anche da vecchio.
Con grande dedizione ho succhiato le canne per i cento e cento chilometri quanto è lunga la Via Blanca. Mi è sembrato che fossi l’unico; che la canna fosse lì, frusciante per tutti gli orizzonti e nessuno se ne prendesse cura come di qualcosa di buono, di dolce, ma solo addocchiata e compulsata come legno passo da tagliare e trascinare dove non si sa, maledetta lei e quanta ce n’è. Vedo totale disincanto per la canna, ecco; diciamo qualcosa come se dio si fosse posato davvero ovunque e in ogni luogo e la faccenda durasse ormai da troppo tempo per sopportarlo ancora; e pure che è dio, e pure che bisogna volergli bene. La questione è che a Cuba la canna è la cosa più vecchia che ci sia e non c’è altra memoria lontana -abbastanza lontana da sembrare un destino crudo- che non abbia a che fare con lei e il tormento che porta agli uomini.
A me invece piaceva fermare l’automobile in un qualsiasi punto dell’infinito campo che attraversa l’isola e stroncare alla sua base una canna e darmi da fare con il coltellino seduto sul ciglio della strada, e avuto in mano nudo il cuore tenerosuccoso, darmi a succhiare; così, distratto e compito, come se quella fosse la mia goduria abituale, convinto -leggerezza dei viaggiatori- che fosse il modo giusto di familiarizzare con il guairo e il moreno, con questo e quello, uomini e ragazzi e donne e ragazze che vanno su e giù per la Via e se non si conosce il loro vivere segreto, non si capisce a che prò siano in giro Nessuno mi ha dato corda in questa mia attività socievole, forse -ripensandoci- mi pare pure che nessuno mi abbia mai visto, dato che per la Via Blanca ho notato che è da maleducati dare l’occhio di lato, verso al campo della canna, ma si preferisce mirare diritto davanti a sé, come se il transitante zoccolo su zoccolo volesse togliersi lo sfizio di arrivare prima o poi dove il sole tramonta, o dall’altra parte, dove il sole è già nato. Est ovest, levante ponente, i punti cardinali dell’azucar; al nord invece i cavoli i fagioli e la juta, il tabacco di giù, nelle terre criolle dove ancora avvampa il resto di una giungla, di una zanna di coccodrillo.
E comunque io il vivere segreto di quelli non l’ho saputo. Perché lì, così pare, nessuno si vende a tal punto. Nessuno, ci giurerei, anche se ho incontrato donne che andavano a fare l’amore con brutti ceffi di lingua romanza in cambio di qualcosa di simile al denaro, o comunque riconducibile ad esso. Ho visto queste donne, mai così belle come si millanta negli uffici pubblici del mio paese, varcare discoteche e alberghi senza mostrare un singulto di vergogna per le canaglie che si trascinavano appresso; le ho viste in timida sorridenza parlare loro dolcemente di gamberi e usanze o petrolio, cercare di non farli sfigurare nel passo complicato della salsa, sospingerli delicatamente a fare almeno due passi prima di un coito che forse non ci sarà mai, perché -mi sembra naturale- glielo leggeresti in viso quando poi le incontri a far la coda in una pizzeria di quelle loro o a passeggio con l’amica o in farmacia. Né ho visto uomini prostituire alcunché di importante tra ciò che potevano avere in qualsiasi parte del corpo e della mente, se non grosse scatole di sigari Puros a un prezzo finalmente equo. Ma ho addocchiato vecchi signori lungo gli eleganti paseos dell’Habana chiedere educatamente di sbirciare il volume che la signorina comitiva Intur sta portando con sé sotto braccio, solo per curiosità, solo per bibliofilia, la prego di credere, e se la signorina desidera sarò onorato di mostrarle la mia bilbioteca. Che dire? Se non che io le ho viste un po’ di quelle biblioteche. Semplicemente per il fatto che le case di Cuba non hanno porte che si chiudano, né cortine che celino il meglio della casa, che -ma guarda che vanitosi- è tutto ben disposto per essere constatato dal passante e visitato dal suo sguardo. Dunque, li ho visti i libri dei signori distinti; e anche se erano di costa e lontani oltre il tavolinetto con sopra i merletti, e sopra i merletti i ritratti dei penati trasiti ingialliti, e oltre ancora dopo la sputacchiera fioriera, remoti ancor più dell’angoliera con i bicchierini e le tazzine e la mezza bottiglia di ron, qualcosa ci ho capito. Che c’era Zolà Maiachowskji Ghevara Ungaretti e Martì.
Ma poi la rivoluzione l’ho vista o no? O se ne stava rintanata nei musei, repertata nell’abbecedario dei grandi cartelli venceremos, segno di un pensiero fossile sulla faccia dei vecchi vacheros che ancora presidiano i villaggi della montagna all’erta contro l’analfabetismo e la zanzara anofele?
Nei fondi neri scavati nella via dove la gente prende quello che Cuba passa col tiket del razionamento nulla sta scritto nei muri che inviti alla calma o sobbilli la calma. Le mani tastano sacchetti sgonfi a metà di robetta da ridere, ma poco più in là con quei sacchetti da piangere stretti in grembo uomini e donne non tristi, non furiosi, fanno code ciarlanti davanti alle pizze e la milizia del potere popolare assiste discosta, all’occhio che non si infranga un qualche dovere. Ma quale? Semaforo
rosso? Cartacce per terra? Tradimento diserzione contrabbando? Dov’è la rivoluzione, dov’è sua sorella la controrivoluzione?
Si annida forse la rivoluzione nel centro antidiabetico dell’Habana dove sta chiedendo pietà con un fascio di dollari in mano un obeso turista canadese? Trapela ella forse dalla cartellina sbrindellata di un bambino che fa la classe seconda in una baracca nel mare della canna e guarda il nero suo padre che guarda il suo nero quaderno senza righe né quadretti e il padre suo a un certo punto ride mentre depone detto quaderno nella cartella tutta uno sdruciore e, rivolto alla canna, si permette un commento esclamativo “¡Ola niño, sabes escribir!” ? E la controrivoluzione risiederà nella compatriota di lui, di due o tre anni al massimo maggiore, che dopo un pedinamento muto e compito di tutto un pomeriggio è riuscita l’altra sera a vendere sul paseo di Cienfuegos per 1 u.s. dollar un paio di orecchini di plastica a una signorina turista intur? E con quel dollaro ha camminato su e giù per parecchi chilometri prima di incontrare un’amica fidata a cui chiedere: “¿ Cuanto vale?” Quell’amica non era più grande di lei, ma di maggiore esperienza, perché ha prontamente risposto: “Bastante para estos” e indica nella vetrina con i grandi cuori di San Valentino, un paio di orecchini di peltro prezzati a 24 pesos della repubblica libera di Cuba.
È stanca la Baia dei Porci di essere lì? Due ragazze cicciosette uggiolano sguazzando tra i ruderi di una difesa di ferro e cemento. Son vanitose e si fanno prendere la fotografia dai loro giovani amanti e ciascuna tiene addosso la maglietta del Che, straccetto fine che l’acqua solleva sul pelo di un filo di risacca; che piacere essere arrivati fin qui, anche solo al tramonto, anzi, meglio al tramonto, così che ogni cosa è ridotta all’incertezza di un mozzicone. Non c’è posto migliore per bagnarsi con ragazze squisite, penso io, e sono finalmente solo a pensare, la mia prima volta in un posto della storia gloriosa senza un turista o un guardiano d’attorno.
Ecco allora tutta la magnificenza della Baia dei Porci che mi si dispiega nello scarlatto vespertino tropicale, che poi altro non sarebbe ‘sto splendore che il fascino di una rovina, difese in disuso smangiate parimenti dalle incurie del mare eterno su e giù e dall’allegria di molte belle ragazze criolle che qui pare usino trascorrere i tramonti in ottemperanza ad un’indole pre cristiana di sirene. O no? O non è invece altro che il cartello infisso tra i banani qualche miglio più addietro e sorvegliato notte e dì dagli astanti la fermata del guaguaqua per Giron? Qui fu fermato l’ultimo attacco dell’imperialismo, e la traduzione guasta un po’ della delicatezza all’orecchio del verbo parar. Orbene, così fosse, se in questa semprefresca pittura risiedesse il nocciolo diamantino di questa per altro immensa dolcissima baia? Ci ho pensato e mi son detto può darsi. Le due formosette mi guardano dal bagnasciuga con l’occhio della superiorità, si cacciano via l’acqua dai capelli con una frullata di capo a mo’ dei cagnoli, e ognuna per suo conto si fa baciare dall’apposito scagnozzo prima di avviarsi zoppicanti tossicchianti -dunque non è tutto oro ciò che riluce- verso una sera ben oltre questo mare scuro, ben lungi da quel cartello. Eppure non si scappa: è proprio qui che fu fermato l’ultimo attacco dell’imperialismo, almeno quel che riguarda il tropico del Cancro. E, tanto per dire, non son certo bruscolini.