Dal greco tragoidia, il canto del becco, del caprone. E ancora oggi non si riesce a capire che strada abbia preso il caprone per arrivare a Eschilo e da lì fino alla funivia dell’altra domenica attraverso le universali vicende dell’umanità. Comunque è certo che anticamente ci fossero questi tragos, remota radice sumerica trag, il distruttore, che distruggevano vigne e coltivi e facevano incazzare moltissimo i contadini. I quali contadini, essendo pervasi dell’ancestrale sensibilità ellenica, non si limitarono a contrastarli con clave e coltelli, ma misero su un gran rituale vendicativo sotto le mentite spoglie di una festa dedicata al dio selvatico, a Dioniso; al culmine delle celebrazioni si svolgeva la gara del canto, aido, chi avesse composto la canzone più bella avrebbe vinto un capro da sacrificare all’istante sotto gli occhi dei suoi colleghi pecoroni. Colpirne uno per educarne cento. E poi? Poi, per l’appunto, non si sa come ma si è arrivati ad Antigone e da lì all’umana tragedia, l’accadimento inenarrabile. Diciamo, è stata una tragedia, e con quello abbiamo detto tutto, una parola che è sinonimo di sé stessa. Cerchiamo, ostinatamente colmi di buona volontà, di mettere in scena le nostre tragedie, riappropriarci dell’antico rito liberatorio, ma non c’è Eschilo oggi capace di ripetere il miracolo di darci un po’ di sollievo. Le nostre tragedie vanno ben oltre ogni immaginabile riparazione. Rimane la remota radice, rimane trag, il distruttore. Colui che fa scempio, e non è un caprone.