Oceano (28 febbraio 2009)

Tramonti è l’ultima zolla dell’ultima terra che si affaccia alla vastità incolmabile di Oceano. Oceano è di là dal mondo, è il mare che nessuno passerà mai vivo; e se qualche eroe dovesse mai farlo, alla fine non troverà mai nulla che riguardi i vivi.
Salendo per la crosa maestra di Campiglia o per quella altrettanto regale di Biassa, oltre la pineta ancestrale del crinale e la linea dei grandi incendi, oltre ancora la trincea di carboni che non cessa ancora dopo decenni di sapere di fumo, si apre in assoluta nudità la lunga costiera che dall’Isola del Tino va a risolversi nella Punta del Mesco. Solo il primo tratto è chiamato comunemente Tramonti –e cioè tra i monti- ma per me, che non sono di qui e non mi importa niente della toponimia, Tramonti è il nome giusto per tutto l’arco di riviera. Qui intorno qualcuno ha spaccato in due la terra, una parte è falesia, l’altra s’è dirotta sul fondo del mare. La falesia è in certi punti talmente netta e diritta che si vede benissimo che è stato usato un coltello, in altri è sfasciume talmente corrotto che si capisce che poi quel tale ha infierito a suon di pugni e di calci.
C’è un piccolo gruppo di capanne di pietra molto antiche a mezza costa che viene chiamato Menesteroli. Una favola dice che lì si è fermato Menesteo. Era esausto ed era arrivato al limite che cercava. Menesteo è stato il comandante di una delle navi del famoso catalogo Omerico. Finita la sua guerra se ne è andato in cerca di fortuna per mare; non aveva famiglia, non c’era talamo di ulivo massello dove valesse la pena di tornare a coricarsi. Riportano gli apocrifi che si fosse cacciato nei guai né più né meno del suo più famoso collega: nondimeno, avendo mano più leggera, era giunto prima dell’altro alla meta prefissata: la fine del mondo. O così lui pensava, quando, senza più forze e speranze, ha doppiato lo scoglio di Portovenere e ha visto davanti a sé l’orrido dell’immensità di quel fiume che separa il mondo dei vivi dall’ignoto e dagli spiriti del mondo dei morti.
Forse è andata così, o invece Menesteo ha passato il resto dei suoi giorni a bere vino in qualche osteria delle Isole; di certo, quando mi affaccio alla costiera e da lì traguardo il mare, ho davvero l’impressione di essere arrivato all’orizzonte ultimo, a un punto estremo del mondo e dell’esperienza delle cose, e ho fin troppo presente che lì c’è qualcosa che può portarmi via.
Chissà se Menesteo avrà avuto dei figli. Immagino di si, e immagino che li abbia incatenati a questa costiera a perpetuare in eterno il culto dell’ultima riva prima del nulla. Chi può essere se non la discendenza di Menesteo, a nutrire in sé la follia necessaria per ridurre e condurre la falesia a quello che oggi io vedo? Il corpo nudo di questa riviera è un nerbo di pietra, un intestino di carne silicea che fascia l’osso dello scoglio in volute che qualora fossero distese si allungherebbero per quattromila cihilometri. O forse mi sbaglio, e invece che carne sono bende –visto che si chiamano fasce, direi che è più appropriato così- bende ben strette attorno alla mummia megalitica del padre Menesteo. Negli interstizi tra una voluta e l’altra è stata raccolta –pungo a pugno, secolo dopo secolo- un poco di terra fertile portata in cesti come fuoco votivo dalle grasse colline di là dal crinale. In questi tabernacoli è stata posta la pianta sacra agli idoli dell’antico padre: la vigna. Barbatelle che crescono a pollici e fruttificano a chicchi, vestite con drappi di rame di stipa contro i tormenti dei venti d’occidente.
Follia per un contadino che è abituato alle sue alte vigne, ai suoi pergoli fluenti ed ombrosi. Follia e vertigine discendere la crosa che non è più via ma scalea; megalite miceneo di pietra scalpellata lontano da qui e qui portata nel modo tradizionalmente adottato per le grandi opere, col solito sistema delle piramidi. Come in Micene -come anche a Teotihuacan e Tikal- ogni scalea porta dagli inferi a un altare, e qui gli altari sono tini di legno ossificato sigillati dentro tempietti di pietra chiamati cantine. Di cantine ce ne sono interi villaggi. Gli inferi sono invece i greti dove lo sfasciume delle frane si accumula sotto la risacca in quello che i turisti chiamano spiaggette. Non credo che qui nessuno tra gli abitatori indigeni in età da lavoro si sia mai mostrato a prendere bagni di sole o di mare. So che è tradizionalmente concesso ai bambini di farlo, di ruzzare tra sassi e salmastro nei tempi delle calure; ma ogni bambino non ha mai osato dimenticare di portare su dalla spiaggetta ogni volta, su per mille o duemila gradini, su fino all’altare, un piccolo masso per partecipare all’ufficio della fasciatura, per imparare in fretta a rispettare la propria catena.
Questa è gente condannata alla pena di un carcere perenne, generazione dopo generazione per l’infinito del tempo possibile a venire. E viene in mente qualcosa che non ha più a che fare con Menesteo, ma con quell’altro pazzo che ha rubato il fuoco agli dei ed è stato incatenato alla pena eterna della roccia.
Gente incatenata ad un destino di vertigini, alla pena di un lavoro bestiale.
La vertigine della fatica non è, per quel poco che so io della fatica, non è quella del turista che passa su un sentiero a picco sul mare; è la vertigine del sudore, è la vertigine dei pesi sul proprio corpo. Pesi fatti di panieri colmi di sassi, non di frutti. Ecco, visto con gli occhi del viaggiatore che discende dalla linea di crinale, tutto questo è qualcosa di non propriamente umano, è qualcosa che supera l’esperienza dell’umanità contemporanea.
La costiera di Tramonti non appartiene a questa epoca, con l’oggi e il qui non c’entra niente. Tant’è che piano piano questa epoca se lo sta prendendo. Lo fa con quello che si chiama il ruscellamento, credo, comunque con le frane che sbaragliano le fasce. E con il pino, i pini figli bastardi dell’alta pineta di crinale che si mangiano prima il leccio e poi la vigna. Non è la natura che riprende se stessa, ma è il meccanismo di un’epoca che dà di nuovo a una natura che precede tutti gli uomini, la possibilità di riprendersi quello che forse le spetta, forse no.
Ha senso ostacolare questo disegno? Tra gli uomini che ci hanno lavorato in dieci secoli, non credo che ce ne sia uno, dico uno, che abbia mai pensato di non generare un figlio o un nipote che avrebbero continuato a fare quel lavoro bestiale. La costruzione di Tramonti non sarebbe mai potuta essere senza l’idea, il sospetto di futuro. Vedo muoversi tra le fasce questa gente, staccare una foglia, versare un sacchetto di terra, piegarsi su un sasso che sta spingendo fuori dalla muraglia, pressato dalla radice di un pino apparentemente ancora lontano. La vedo salire le scalee con il passo di chi ha portato macigni per Keophe, la vedo salutare con un brevissimo movimento degli occhi il vicino, che forse è padre o fratello, forse soltanto progenie dello stesso padre. La vedo tacere di fronte all’Oceano che gli sbraita in faccia la sua onnipotenza. Bene, stanno frapponendosi tra Menesteo e la contemporaneità. Compiono un atto sensato? Io credo di si. Proprio perchè è un atto contro la storia, contro la storia di quest’epoca.
Spariscono le umanità, spariscono i paesi e le nazioni, spariscono le speci e non gliene frega niente a nessuno. Figuriamoci il giorno che sparirà Tramonti cosa gliene importerà al mondo. Proprio per questo è importante che non sparisca mai. È un gesto di folle, sacrosanta ribellione. Età della pietra, civiltà dentro i sassi. Una pazzia in cui qualche sconsiderato può mettersi ancora al riparo.
Non io tra questi.
Con tutto che io so di amarla questa riviera, so anche che non c’è riparo qui per me. Non è posto dove qualcuno della mia genia può mettersi da qualche parte a riposare –non c’è un solo pero adatto per questo in tutto il pur vasto comprensorio- né onda che io possa sperare di cavalcare con il solo modo che so, nello stile della papera campagnola. E ne ho fatti di bagni qua e là sugli approdi e le marine, imbolandomi giù dai dentuti scogli e scivolando via dalle turistiche spiaggette. Ma bagnarsi non significa avventurarsi. E se qui ho imparato altri stili, nessuno di questi è stato mai applicato per allontanarmi dalla riva alla tangente. Sono un bordeggiatore. Bordezando, bordezando, ho scoperto che so cavarmela nel mare di qui; mi immagino di assomigliare ad una di quelle barche vinaccere, bordeggiatrici per eccellenza, grasse papere accondiscendenti al mare corto e ai venti occidentali, che hanno convinto ad andare per mare i rivieraschi, al pari di me assai poco propensi a perdere di vista la linea alta delle piane. Si, nuoto, per ore da scoglio a scoglio, da capo a capo, da levante a ponente, e spero di poter essere confuso con una papera, così da essere lasciato in pace. Additato alla lontana dai turisti, oggetto di qualche cattivo lancio di avanzo di merenda, e nulla più.