La chiesa (14 agosto 1995)

Sono cinque anni ormai che canto in un coro. Ho una voce niente male, e nella mia sezione, quella dei baritoni, il mio canto si inanella alto e chiaro, privo delle incrinature e delle incertezze di molti miei compagni, così che quasi sempre sono io che intono la parte solista, è nei miei occhi che il maestro punta la bacchetta per dare il là a tutta la faccenda. Il nostro è un coro di dilettanti, ovviamente, ma abbiamo da esibirci praticamente per tutto l’anno, tutte le domeniche e le feste comandate. Sotto Natale e Pasqua facciamo delle vere piccole tournées, e da un po’ di tempo ci sono un sacco di impegni verso maggio-giugno, quando fioriscono i matrimoni. O rifioriscono, visto che c’è stato un lungo periodo di crisi al riguardo.
Canto nel venerabile e antico coro della cappella della mia parrocchia, per intenderci; e non voglio vantarmi, ma abbiamo uno dei più bei repertori della provincia, se non della regione. Tutte le messe più vocianti di Perosi, compresa la Missa Angelica, la roba più popolare e casinista di Hendel e Telemann -noi vogliamo divertirci, mica lavorare- e anche Mozart, se è per questo, e Schubert, e, giustamente, un po’ di moderno, per quando dobbiamo fare bella figura davvero, nei raduni coristici. Lì ci sono i premi e le giurie che ogni volta, fosse anche a Cigoletta, si credono di stare a Bayreuth a selezionare complessi per il Festival. Qualcosa abbiamo messo insieme come roba di coppe e medaglie in questi ultimi anni, ma niente in confronto ai bei tempi andati. È che è cambiata la nostra politica culturale, per così dire: ora badiamo molto di più alla quantità che alla qualità. Per esempio, a differenza di quasi tutti gli altri, noi non facciamo mai una campagna acquisti in previsione delle gare, noi non andiamo a cercare i professionisti del Teatro dell’Opera e non sputtaniamo i soldi della gente del quartiere per far fare una marchetta a tre o quattro di quei vecchi marpioni, per poi levarci la soddisfazione di portare a casa una coppa di vermeil da infilare dentro la vetrinetta della sacrestia. Noi prendiamo tutta la gente che ha voglia di cantare perché cantare è bello e fa bene, cerchiamo di cavarci fuori quello che è possibile, e se poi l’insieme viene un po’ disomogeneo, e non proprio intonatissimo, pazienza.
Ragazzi, ci mettiamo insieme per divertirci, mica per lavorare.
Beh, c’è la Marisa, quella rossa dei mezzosoprani, che ogni tanto tira fuori la proposta di castrare un tenore, ma -naturalmente- è uno scherzo. Certo, a pensarci, sarebbe un gran bel colpo avere un controtenore nel coro: saremmo gli unici ad avercelo, credo, e potremmo tirare fuori tutto lo stupendo repertorio che adesso riusciamo a far fare, solo in miserrima e sacrificatissima parte, a un contralto, quando ci capita una ragazza adatta, e cioè a ogni morte di papa. Ma è stupido anche solo pensarci per scherzo a castrare un tenore.
Dicevo che sono cinque anni che canto; e ancora oggi, ogni volta che lo faccio, ogni volta che al cospetto della orrenda navata di cemento in vago stile neoassiro della mia chiesa scandisco alto e lucente il mio Kyrie o il mio ineguagliabile Gloria -ancora l’altra domenica, lo giuro- i visi dei parrocchiani si volgono tutti stupiti, tutti esterrefatti, verso di me. È che non se ne sono fatti ancora una ragione del mio essere lì, ascoltano la mia voce e hanno bisogno della testimonianza dei loro occhi per confermare l’impressione che sia la bella voce di Maggiani che canta ispirata le lodi del Signore. Perché, vedete, lo sanno tutti: io sono ateo. Dico sul serio: sono ateo, e attivista del circolo arci Bakunin, che ha sede dall’altra parte della piazza e è un ritrovo di sovversivi e mangiapreti se ce n’è; e anche pubblico bestemmiatore, sono io.
Ve lo può dire Gino, il giornalaio di via Plava, cosa sono capace di cacciar fuori dalla mia bocca ogniqualvolta mi scappa di comprargli il giornale e di darci un’occhiatina lì per là. Gino canta anche lui nel coro, nel reparto dei tenori, ed è proprio su lui che si sofferma voluttuosa la fantasia castratrice della Marisa; immagino che sia per qualche questione pregressa tra i due; o qualche disputa teologia irrisolta, visto che sono amendue cattolici praticanti e molto motivati. Anche loro ogni tanto mi danno una sbirciatina di sottecchi quando non rischiano di essere visti dal maestro, il maestro Pastorini che quando cantiamo gli viene un ictus se solo ode cadere una ciglia.
Praticamente nessuno sa resistere alla tentazione di darmi un’occhiata. Io lo so cosa gli passa per la testa a tutti quanti. Anche se per lo più è tutta gente buona, anche se sono amici, anche se sono ragazzi più giovani di me e di me assai più spigliati in parecchie faccende laiche, loro si aspettano da un momento all’altro che un fulmine cada dal cielo dritto sulla mia cucuzza e mi faccia secco lì, con sulla bocca ancora le tre sante crome di De-e-o. Sarebbe naturale così, pensano; magari non giusto, magari crudele, ma è ovvio che se c’è davvero un dio, prima o poi si ricorderà di incenerirlo il miscredente. E non vogliono perdersi lo spettacolo, ci mancherebbe.
Io lo so che è questo che pensano i pii fedeli e coristi quando si voltano furbeschi e sornioni dalla mia parte. Lo so per la semplice ragione che è quello che penso anch’io. Io non sono nato ateo, naturalmente, e per un certo periodo neppure ci sono cresciuto così. Anzi, come spesso accade, da bambino e poi da ragazzino ero un fervente cattolico, educato in tal modo con zelo e crudele veemenza. Ciò che canto ora, da adulto ormai attempato, già lo cantavo a memoria a dieci anni; e so tutto sul peccato, tutto, o quasi, sul sacrilegio e sui mille gratificanti episodi di orribile punizione divina. Sono intimamente convinto perciò, in una parte della mia coscienza che non appartiene all’ambito della volonta intellettiva, ma alle oscure certezze del “sentire”, che una domenica o l’altra, magari proprio un momento dopo che una bella coppia di sposini si è scambiata l’anello, e io sono lì che sto per intonare l’Ave Maria di Schubert, che in questi momenti è proprio quello che ci vuole per fare piangere i consuoceri; ecco, io so per certo che in un momento di sospensione come questo, craaaakk, un boato irromperà dall’alto, una luce vivissima accecherà l’intera assemblea, e ogni cosa giacerà immobile e atterrita. Fino a che un sottile filo di fumo e un leggero sentore di carni bruciate richiamerà alla coscienza i più forti tra i fedeli. E poi tutti saranno in piedi, e ci sarà del pigia pigia per vedere, per capire. E il parroco, alto, magro, ieratico, con un semplice gesto fermerà la folla e calmerà l’isteria generale. Si avvicinerà al mucchietto di cenere e, tracciandogli sopra il segno della croce, benedirà con cristiana pietà i pochi resti del sottoscritto e impartirà l’estremo, immeritato, perdono.
Mi sa che l’unico che non ci crede a tutta questa roba sia proprio il parroco. Lui non solo è un brav’uomo, davvero, ma è anche un prete serio; un compagno, mi permetterei di dire, se non fosse che lui per primo non è daccordo, e di poi rischierei di fargli perdere il posto di lavoro.
Poveraccio, Don Franco, non gli é certo toccata una parrocchia consona alle sue elevate attitudini. Qui siamo un po’ fuori dal grande giro della storia e siamo piuttosto mediocri nei vizi come nelle virtù.
Insomma: non c’é tanto sugo per un prete che crede fermamente alla fede cristiana come esercizio di scandalo e rottura con l’andazzo piccolo borghese e materialista.
“Si, proprio una bella rottura”, mugugnano i meno pii tra i suoi fedeli dopo una bella predica avversa agli sfarzi dei matrimoni, all’egoismo dei commercianti, al menefreghismo della giunta locale. “Già, che rottura” imprecano fraternamente i più zelanti, quando scopriamo che per il grande ballo di S. Giovanni, l’unica botta di vera vita di tutto il santo anno, lui che si era incaricato della musica ha pensato bene di scritturare un complesso specializzato in antiche mus
iche celtiche.
La verità è che Don Franco aspira al martirio e crede anche di aver trovato il modo di coronare il suo sogno, e si è messo pure in testa che la chiave di tutta l’operazione ce l’abbia in mano il sottoscritto.
Tranne i primi tempi, quando si era messo in testa di concupirmi l’anima alla vera fede e mi assillava un pochino, i miei rapporti con lui sono sempre stati ottimi. Lui è convinto che Dio non mi fulminerà nel bel mezzo del mio canto ed è arciconvinto che io, lo voglia o no, sono un ottimo cristiano.
Intanto perché non mi sono fatto insozzare dal Dio mammone, e poi, soprattutto, per il mio grande attivismo in favore della gente di Sarajevo. Appunto: è a Sarajevo che Don Franco ha deciso di consumare il suo martirio. Non è pazzo, anzi, il suo desiderio mi pare cristianamente ineccepibile, anche ateamente se è per questo. E’ che lui non deve morire schioppettato. Eh no, troppo comodo. Lui deve vivere e fare il parroco, penso io. E alle sue smanie e alle sue lusinghe – Dai, trovami il modo per un lasciapassare, tu si che potresti – io rispondo sempre con un: “ Fermo prete, è questa chiesaccia la tua croce, non sarò io a schiodarti da qui”. Lui frigna un po’ poi ci riprova..
Noi, solo come coro, non parlo della mia associazione che fa le cose in ben altro ordine di grandezza, mettiamo su un camion di roba ogni due mesi. Abbiamo i canali giusti e il camion arriva sempre dove deve arrivare, in un piccolo paese non lontano da Sarajevo dove teniamo in piedi una scuola materna, noi insieme agli altri cori della provincia. Abbiamo anche i nostri volontari e ogni cosa funziona proprio bene, date le circostanze.
L’unico problema è Don Franco . Tutti siamo d’accordo che non deve andare, ma basta dargli un’occhiata! Magrolino, smunto, patito: sarebbe solo una preoccupazione in più. E poi é capace di scapparti di mano per cercare di arrivare alla città sotto assedio. Figurarsi. Bé, adesso siamo arrivati al punto che cerca di nascondersi nel cassone del camion in partenza. E ci tocca buttarlo giù a calci nel culo, e ci tocca di vederlo piangere di tristezza; e ci tocca di consolarlo, anche.
L’ ultima volta che l’abbiamo preso mentre cercava di infilarsi in uno scatolone di pannolini, l’abbiamo spedito di corsa in chiesa, che si era dimenticato della messa delle 11. “Sai quello che devi fare”, gli abbiamo gridato.
Si, un bel predicozzo di quelli suoi tremendi avverso ai maiali che parcheggiano le loro luride macchine nel sagrato. Il bel sagrato in asfalto sul davanti della bella facciata in cemento neo assiro, dove dovrebbero giocare e crescere i bambini e chiacchierare e invecchiare i loro genitori, benedetti tutti quanti dal sole del buon Dio.