Vi voglio raccontare una bella storia, una storia vera. La storia di Gino che di mestiere faceva il pittore sfortunato. C’era dunque questo Gino che era un uomo bello e gentile, e un mio grande amico anche se era più grande di età, e anche, e molto, di corporatura, visto che era somigliante a un guerriero vichingo e aveva la barba e i lunghi capelli biondi di un vichingo. Questo Gino aveva il genio della pittura e dipingeva dei quadri bellissimi. Ma erano quadri strani, quadri di uno stile mai visto, si sarebbe detto quadri vichinghi, e nessuno li voleva comprare, così che Gino viveva con pochissimo denaro e faticava anche a nutrirsi. Dei suoi beni ormai del tutto alienati gli erano rimaste solo due cose preziose, un grande e lussuoso cappotto di pelle e una cagna, Perla, un enorme molosso. Con la sua Perla Gino divideva il tetto, il letto e il cibo, quello che aveva lo divideva in due parti uguali, e non era mai abbastanza. Ma Gino sapeva trattenere la fame e la Perla no, così la molossa aveva finito per mangiarsi i gatti che trovava per strada quando andava a fare i suoi bisogni, andava sempre da sola perché Gino non smetteva mai di lavorare giorno e notte perso nel suo sogno di dipingere un grande capolavoro vichingo. A un certo punto i gatti disposti a farsi mangiare finirono e la Perla imparò a cacciare i piccioni, e finirono anche i piccioni, almeno quelli poco svegli. Intanto Gino divenne ancora più povero perché doveva pagare le multe che i vigili urbani appioppavano alla Perla per il suo comportamento criminale. Così per non prendere più multe chiuse la Perla in casa, e la Perla era sul punto di morire di fame, quando un bel giorno Gino uscendo di casa lasciò aperto il suo armadio, andava di fretta perché aveva finalmente trovato un amante dell’arte vichinga e andava a portargli il più bel dipinto che aveva. Dall’armadio si spandeva un odore buonissimo, la molossa ci mise dentro il suo muso grosso come un cocomero e trovò il cappotto di pelle. La pelle era finissima pelle di vacca e la Perla se lo mangiò tutto quanto, buttò giù persino due bottoni che vomitò sui pantaloni di Gino quando al suo rientro gli andò incontro per fargli le feste. Gino aveva venduto il suo quadro, a rate ma l’aveva venduto, e voleva così bene alla sua molossa che invece di portarla al canile criminale spese tutto quello che gli avevano dato come prima rata per comprare dieci chili di bistecche con l’osso che si spartì in parti generosamente eguali. Era inverno e Gino rimase senza cappotto, patì il freddo stoicamente, da vero eroe vichingo, finché un bel giorno fu invitato a una cerimonia che si svolgeva nella sezione del partito comunista del suo quartiere. La cerimonia era per lui, gli consegnarono il frutto di una colletta tra gli iscritti, un bellissimo cappotto; non era in pelle per non indurre in tentazione la sua golosa molossa, ma di morbido e caldo pettinato che, per quel che ne so, continua a portare tuttora, e, per tutto il lungo tempo che è rimasta in vita, è stata l’amatissima cuccia per i pisolini della Perla. E questa è una storia dei bei tempi andati, quando il partito dei lavoratori era ben lungi da indurre in vergogna e ribrezzo persino il segretario generale di quel che n’è rimasto.