Nel modo barbaro in cui sono stato cresciuto nel cuore rurale del secolo scorso, il mandato di ogni uomo era triplice e molto semplice, lo riporto in italiano anche se nella mia lingua materna avrebbe tutta un’altra forza: colmare i coppi, fare un figlio, piantare un ulivo. In sequenza, mettersi al riparo di un tetto, generare il futuro, dargli la possibilità di sostenersi, a quel tempo gli ulivi chiedevano una generazione per dare frutto. Ognuno di questi mandati aveva a che fare con il trascendente, con quel senso del sacro così famigliare, così pervasivo nelle intenzioni del vivere dei morti di fame semi analfabeti che mi hanno educato; erano anarchici scomunicati, ma rivendicavano la loro parte del sacro che ritenevano appartenesse a ogni vivente. Prima di ogni altra cosa era sacro il dovere. Colmare i coppi di un tetto primo dovere. Si finivano i tetti in estate, mettere l’ultimo coppo era un miracolo di fatica, di costanza, di ingegneria orale, i disegni di quelle case risiedevano nella testa e nell’occhio del capomastro e del capofamiglia, che spesso erano l’uno e l’altro. Messo il coppo si innalzava la bandiera, che data la tempra dei costruttori era assai più speso rossa che tricolore, e si mettevano fiori, corone di fiori di campo sui coppi. Un’offerta votiva, un altare, la casa si prometteva sposa a chi l’avrebbe abitata, la promessa di essere riparo ai corpi e alle anime di chi l’avrebbe vissuta, la casa si fa essa stessa anima. Per questo mi sarebbe piaciuto vedere il Ponte infiorato alla vecchia maniera della mia gente; è stato poggiato l’ultimo coppo, l’intenzione si è fatta materia e la materia anima. Il Ponte si è promesso. Arrivare a quell’ultimo coppo è stato un miracolo non così diverso da quello che è servito per una casa di contadini del secolo passato, intenzione, costanza, fatica e genio non così diversi, e siccome l’architetto Piano un po’ lo conosco, so che non troppo diverso è stato lo spirito del capomastro, del capofamiglia. Eretto sulle macerie, guardato dagli spiriti delle vittime e dalla fermezza dei sopravvissuti, così come dalla disgrazia e dalla speranza è stata eretta la casa dove sono nato, il Ponte è il nostro tetto, il nostro figlio, il nostro ulivo, il nostro riparo, il nostro futuro, il suo sostegno. Inghirlandato di fiori è l’altare di una promessa colma di sacro, colma del sacro di ogni vita persa e di ogni vita che gli si è dedicata, colma della sacralità di un dovere. Mi dispiacerebbe se tutto questo suonasse retorico, perché è materia, durezza della materia nuda e cruda; è anima, la nuda e cruda necessità dell’anima perché la materia si tramuti in vivere. Come mi sarebbe piaciuto essere lì, avrei portato io le ghirlande di fiori, avrei corrotto un gruista perché le portasse lassù. Come mi sarebbe piaciuto se avesse potuto esserci la città intera, il Paese intero, togliere di mezzo le algide autorità e celebrare la promessa con quel poco che si ha tra noi, quel poco che basta per tutti. Posato il coppo ci sarà da finire la casa, l’estenuata fatica del particolare, l’attenzione più acuta, gli infiniti dettagli. Alla fine, solo alla fine, la festa degli sponsali, il domani che si è fatto oggi, il costruire, l’erigere, che si fa vita, la vita di tutti unisona; e allora sarà d’obbligo pretendere che sia una festa di popolo, il popolo che invita. Come è sempre stato per una casa che avrà fortuna.