Siam venuti a cantar maggio / qui sull’uscio della sposa / ma la sposa è andata via / è nel prato a coglier fiori / ne ha raccolto una panera / per cantar maggio di sera. Scendevano dall’alpe i garfagnini a maggio e si fermavano sul greto della Magra a arrotare coltelli e aggiustare ombrelli; poi, la sera, si rivoltavano le giacche, si mettevano corone di frasche in testa, l’organetto a tracolla, e andavano a bussare alle porte per cantare il maggio delle spose. Le spose ridevano e gli mettevano nella sacca bottiglini d’olio d’oliva intrecciati di fiori di campo, l’olio i garfagnini se lo sognavano. Maggio è majior, il maggiore, il più, Maggio è Maia, l’antica dea che feconda la terra, Maggio è maiale, il grasso verro che nutre per tutto un anno, Maggio è la Madonna, la vergine madre di tutti, Maggio è l’arcaico mag, il crescere. Il primo giorno del mese i romani festeggiavano sacrificando una scrofa a Maia perché ricambiasse per cento, per mille; ora i lavoratori fanno festa perché il lavoro è crescere, è fecondità, è il più, è benedizione. E io quando sento Maggio alitare tiepido e gravido, rivedo le spose proletarie portare fasci di rose rosse all’altare della loro santa, la Rita delle cause perse; rivedo i loro uomini vestirti a festa, le facce tirate a lucido dal dopobarba Men, sfilare sotto il santuario della Camera del Lavoro inebriati di orgoglio, un garofano rosso all’occhiello, il giornale dei lavoratori infilato nella tasca dei pantaloni dove alloggia il loro portafogli smilzo. Rivedo il novecento perché nel duemila dopo aprile viene subito giugno.