Lo chiamiamo il Ponte, lo abbiamo sempre chiamato il Ponte e basta, l’altro e questo. L’altro non era il ponte Morandi, era il Ponte, e questo non è il ponte Impregiro, non è il ponte Autostrade, non è il ponte Toti, non è il ponte Bucci, non è il ponte Italia e non è nemmeno il ponte Piano. Anche se lo sappiamo e lo vediamo che è suo il disegno, la discrezione del suo andare, la riservata eleganza, la sua necessità fatta bellezza, e sappiamo che se sta venendo così bene non è perché quell’uomo è una celebrità dell’architettura, ma perché è uno tra noi, uno che sa quello che sappiamo noi, che ha bisogno di quello che abbiamo bisogno noi, che piange di quello che noi abbiamo pianto, che sorride, sorride assieme a noi di quel che ci piace sorridere, e anche lui lo chiama il Ponte, il Ponte e basta, non il suo ponte. E sorridiamo, sì, sorridiamo fermandoci un attimo nei paraggi per dargli un’occhiata, in ragione di una delle poche certezze che abbiamo, noi che viviamo in questa città campata in aria e del governo delle incertezze ne sappiamo qualcosa: solo la vita può riscattare la morte. E quella morbida, leggera linea che attraversa la valle, che altro è se non la vita che ci riprova ancora, ancora una volta per l’ennesima volta più persistente dell’afflizione, dell’abbandono, del declino. Sorridiamo e diciamo il Ponte, non il nostro Ponte. Perché non siamo stupidi, e come sappiamo che quando è venuto giù il vecchio non è crollato solo del cemento armato, ma è crollata la città intera e con la città il Paese, così sappiamo che il nuovo non è di nessuno perché è di tutti. Di tutti quelli che ci passeranno sopra e sotto, di tutti quelli che nel Paese sanno ricordare ma sanno anche che val la pena di riprovarci ancora una volta. Tornare a edificare, che è qualcosa di più, molto di più, che costruire. Mi hanno appena detto che Matteo Salvini è andato a prendere possesso del Ponte, a metterci sopra gli stivali come si dice, trattandosi di un ponte, a pontificare. Gli è stato concesso questo primato, qualcosa come il piede del primo uomo sulla luna, non so in base a quale principio di cautela, o convenienza, ma non importa, non me ne frega niente. Qualunque cosa si creda di essere e di possedere, il Ponte non è roba sua; se l’ha preso per una passerella ha capito male, le passerelle sono soggette alla precarietà, il Ponte no, non quello. È solo il primo, lo so, guarda mamma che sono arrivato uno, ci metteranno sopra stivali e mocassini un sacco di altri che come lui per esistere hanno bisogno di prendersi quello che non gli appartiene, perché tutto ciò che hanno è la voce. Una voce senza parole, che lassù, sul Ponte, si disperde nell’aria limpida di tramontana, affoga nel madido dello scirocco. Già, quello che vogliono quelli lì è trasformare il ponte in una passerella; farà presto a esserci sopra troppa gente, e allora prenderà pericolosamente a oscillare, si aggrapperanno l’uno all’altro, i più decisi cacceranno giù i meno lesti, ma nessuno è abbastanza bravo da governare una passerella impazzita, qualche tirante cederà. Sì, pensiero stupendo. Quando inaugureremo il Ponte di ognuno, quando lo faremo con la decenza, la dignità e l’allegria che si merita e ci dobbiamo, vedremo danzarci sopra il meglio che possiamo essere mentre a lato la passerella del nostro peggio prenderà a dondolare, dondolare, dondolare.