Ho ricevuto un invito a una manifestazione culturale piena di buona volontà indirizzato a un asterisco, car* amic*. Non andrò, io non sono un asterisco, ho solo qualche modesta certezza su me medesimo ma so per certo che non necessito di un richiamo a fondo pagina, posso essere caro e forse anche amico, ma non un impronunciabile *. Nei giorni passati ho preso a leggere un articolo e ho lasciato perdere alla settima riga, quando mi sono imbattuto nella lettera ø, applicata in funzione di tutti e tutte; non conosco questa lettera ø, credo che appartenga agli alfabeti scandinavi ma non ne sono sicuro, non appartiene al mio alfabeto, all’alfabeto della lingua che parlo, ascolto e scrivo e leggo, non ne so il suono e dunque non posso coglierne nemmeno il senso. Una mia conoscente, ancora mi prendo la libertà della desinenza in a, un’artista molto capace e apprezzata, ha rivisto la sua identità di genere tre volte nel corso degli ultimi anni, prima femmina, ne aveva qualche ragione visto che si era accompagnata a un uomo e ne aveva avuto un figlio, poi maschio, e lo si vedeva chiaramente dal taglio dei capelli, infine, intanto che i capelli le erano cresciuti, non maschio e non femmina; ora sta conducendo una dura battaglia per l’adozione della u in riferimento alla sua persona, amicu, artistu, Stefaniu, io ci provo a chiamarla Stefaniu, ma non mi riesce mai bene. Sempre più di frequente mi imbatto sulla stampa politicamente corretta nella comunità LGBTQI+, non ne appartengo, e dunque so di non poter arrogarmi alcun diritto di rappresentanza, ma stento a credere che un umano possa sentirsi appagato nel ridursi in un acronimo; gli acronimi vanno bene per le società di affari, per le infezioni, per le cose di moda, non vanno più bene nemmeno per i partiti politici, come lo potrebbero per anime e corpi viventi. C’è poi quel segno +, addizione indeterminata, forse dal latino plus, non saprei, ma qui si parla di vite, c’è una vita plus, c’è una vita +? Immagino che l’intenzione sia quella di rivoluzionare alfabeto e lingua per rivoluzionare il sistema delle relazioni tra i sessi, farla finita con la lingua maschia, instaurarne una inclusiva cominciando con la neutralizzazione per iscritto degli esseri. Bene, allora davvero è ragionevole pensare che quando parleremo tutt* a scatti il mondo fuori dallo schermo sarà un posto migliore? E qui cito una studentessa liceale nostra vicina di casa.

Certo, la lingua conta, eccome, la lingua è potere, sovvertire la lingua è sovvertire il potere. Personalmente mi vanto senza alcun ritegno di essere un teppistello, attempato, della rivolta, un teppistello della letteratura; non essendo di costituzione adatto a menare le mani, ho presto imparato a menare la lingua, a farne un proposito di eversione, e continuo così. Conosco bene il potere della lingua e sin da quando andavo a scuola a prendermi i miei quattro e i miei n.c., schifoso acronimo, so che la lingua è potere, e con la lingua il potere l’ho combattuto, la mia lingua per sovvertire la vostra. E la mia lingua me la son fatta rubando quel che mi pareva, saccheggiando i dizionari e confondendo, manipolando, imparando e prendendo a prestito dagli altri eversori, dai mille infinitamente migliori di me, e splendenti e meravigliosi, e restituendo infine il dovuto. So bene dunque che la lingua è potere e lotta, oppressione e liberazione; e allora è per questo che non tollero l’imposizione, neppure quella grammaticale quando ne sento il falso suono; men che meno tollero l’imposizione a fin di bene, perché non vedo alcun bene nell’imporre, nessuna bellezza, ma ancora il palesarsi di un’intenzione di potere, la vostra lingua che si fa canone e il canone legge. La mia lingua a cui tengo così tanto, è l’unico mio bene, l’unica mia arma, non chiede di essere né canone né legge. Sottostà invece alle leggi, alla legge del mercato quando si fa scritta, alle leggi dell’affetto e delle relazioni quando la parlo; mi sottopongo quotidianamente all’assenso e al rifiuto, non lotto per il potere, lotto per la libertà. Così mi sento a posto se rifiuto un invito indirizzato a *, se trovo illeggibile la ø, se mi fa fatica pensare che Alberto sia tutto nel + di una stringa alfanumerica. Se ad Alberto invece gli bastasse il suo posto nella stringa, mi sentirei di invitarlo a cercare nella lingua che parla qualcosa di più vivido, e nel caso non lo trovasse, provare a inventare una lingua per sé stesso, una lingua da offrire all’universo delle relazioni, degli affetti, dei ruoli, alla rivoluzione se gli piacerà. Naturalmente creare una parola non significa costruire una verità, ma una realtà sì, una realtà destinata a consolidarsi o dissolversi nel confronto con le multiformi e cangianti realtà individuali e collettive. Il liocorno, ad esempio, è stato una realtà per un certo tempo assai condivisa, ora non più, se non per un certo numero di appassionati del genere fantasy. Certo, Alberto potrebbe andare con la sua nuova lingua, o anche solo con il suo +, alla conquista del potere, e allora la sua realtà si farebbe verità e legge, ma non avrei più tanta voglia di passeggiare e parlare con lui. Resta il fatto che l’asterisco, la ø, il + non comunicano niente delle vite, dei problemi, dei drammi, delle allegrie, della grandezza di una vita. E resta il fatto che la Gilda, che ha venticinque anni, è lesbica e fa la commessa per settecento euro al mese, per la cronaca tanto quanto il suo vicino di banco maschio etero, perché qui da noi la parità dei sessi laggiù in basso è ormai conquistata, ecco, al momento la Gilda si sentirebbe assai più appagata nel vincere la lotta per un salario dignitoso che stravincere quella per la sovversione dell’alfabeto. Resta il fatto che la vittoria per l’alfabeto si fa sempre più vicina e quella per il salario sempre più lontana. Ragion per cui mi chiedo se i valorosi combattenti del + e del * e del ø stiano intanto lavorando con pari alacrità per la Gilda oltreché per sé stessi, per il potere sui segni o per la libertà dal bisogno, da ogni bisogno.