Ecco, lo dico senza vergogna, sono stato un settario, ora che da tanto tempo ormai non sono più legato al vincolo della segretezza, posso fare anche i nomi, sono stato membro attivo della setta del Bosco. È stato davvero tanto tempo fa, allorché amaramente incespicavo nel faticoso passaggio della pubertà all’adolescenza, intorno ai tredici, quattordici anni, una contingenza che peggio non saprei ricordare, tempi di mesta, avvilita solitudine, di contrita frustrazione, di nera povertà. Dall’oratorio ero stato cacciato perché avevo peccato di superbia nel corso dell’indottrinamento e contestato la natura fisica, carne e ossa, dell’angelo custode; a scuola andavo male, malissimo, braccia strappate all’officina dove già erano convenientemente allocate le laboriose mani paterne, avrebbero dovuto indaffararsi nell’avviamento al lavoro e non dilagare nella scuola media a turbare il casto sguardo della progenie avvocatile e ragioniera, scartavo rabbiosamente in un canto rosette con lo stracchino mentre gli altri, diomio gli altri, svolgevano con suono d’incanto il cellophane di prelibati Buondì Motta. A casa nessun gratificante riparo, affaticata severità, lontananza, lascia stare tuo padre che ci ha altro per la testa, la vedi tua madre come s’è ridotta a furia di magliare. La cruda verità è che non potevo contare su nessuno che avesse voglia di fare qualcosa di buono per me, qualcosa di gratificante con me. E poi c’è stato il miracolo, improvviso e salvifico come quelli che predicavano i preti; quelli di via Rattazzi hanno voluto fare amicizia con me. Un sestetto della mia età, ma più svegli, si capiva; li vedevo andarsene in gruppo per il quartiere, apparire e sparire, fermarsi all’edicola, dal tabacchino, inforrarsi nel boschetto dietro la scuola, e poi, semplicemente, mi hanno fermato, e il capo mi ha parlato, deciso, vieni con noi al boschetto che ti dobbiamo parlare e che c’è anche da fumare. Il capo aveva solo il cognome, Ferrucci, ed era il capo perché era più grande di un paio d’anni, ed era intelligente, coraggioso, aveva ancora da compiere sedici anni e era già pieno di conoscenza e sapeva più cose di tutti gli altri messi insieme, era persino elegante, una guida sicura. Cooptato. È bellissimo essere cooptati, assunti nel cielo dove son lì che ti aspettano, nel paradiso dove sono tutti uguali, e se ci sono solo due sigarette si dividono per sette, e nessuno fa il sapientone perché tutti hanno da dire qualcosa che val la pena di stare a sentire. Sì, avere sempre qualcosa da dire e da ascoltare, qualcosa di avventuroso da escogitare e bello da fare segretamente, così segretamente che non parlavamo di fare questo o quello, ma di andare in missione, beh, quello è il paradiso. Eravamo la banda del Boschetto, non dicevamo setta, setta lo dicono gli altri quando ti scoprono. A parte le dovute pause di relax, la banda aveva due grandi missioni da compiere: uno, confermare l’esistenza degli extraterrestri cercando e scoprendo le tracce di sbarchi nelle vicinanze; due, fare più danni possibili ai cantieri del complesso in costruzione a ridosso di via Rattazzi. Avevamo il vangelo, i libri di Peter Kolosimo – ah, Il Pianeta Sconosciuto, ah, Ombre sulle Stelle – e gli atti dell’apostolo, Il Viaggiatore delle Stelle di Jack London. E avevamo una forza armata, Angelo, che era grosso tre volte me e un padre fabbro a cui sottrarre gli armamenti tattici. E quei due o tre che è durato il segreto sodalizio del Boschetto sono stati anni fantastici, anni di rinascita, di orgoglio, di cura e lenimento. Ci riunivamo nella nostra sede segreta, una baracca abbandonata nel boschetto dietro la nostra orrida scuola a leggere i testi sacri e a supporre, a condividere personali sospetti e intimi avvistamenti, sensazioni appena appena dicibili, sigarette senza filtro e birrette. A stare lì tra di noi non c’era freddo d’inverno e caldo d’estate, tornavamo a casa talmente di malavoglia che non ce ne fregava niente se pigliavamo due schiaffoni per il ritardo. E quando avevamo i soldi per la corriera, partivamo in missione per le valli, su a piedi per le cime delle colline a cercare tracce di atterraggi, i segni erano molti, bastava ben interpretarli. Ferrucci aveva scoperto un vecchio prete di montagna che aveva visto qualcosa, ne aveva scritto anche nel registro della parrocchia e parlato, inascoltato, col vescovo, fu intervistato per mesi. Fughe da casa nella notte per scrutare il cielo nei giorni che Kolosimo preveggeva per quasi certi passaggi alieni. Naturalmente la nostra era un’impresa impossibile, tutto ci era contro; i poteri forti dei genitori e del senso comune, la scarsità dei mezzi, la vastità dell’universo; ma questo ci rendeva ancora più determinati, più coesi, gioiosamente disposti alla rinuncia e al sacrificio, colmi di un’impagabile sensazione di fraternità e di complicità. Per questo la sezione bellica era di fondamentale importanza, eravamo dei gagliardi ragazzotti ognuno con i suoi conti in sospeso con gli ormoni e con i peli che avevano preso a crescere e a prudere, i padri, i preti e i professori avevano messo su una macchina repressiva che aveva le valvole ormai spanate, non c’era verso di tenerci a bada. Eravamo una banda e non c’era banda senza un nemico, avevamo bisogno di imprese eversive, per esistere avevamo bisogno di essere dei fuorilegge; niente di meglio che vandalizzare le betoniere, violare i depositi, scardinare le impalcature delle costruzioni che avrebbero distrutto il nostro unico rifugio, il boschetto segreto. L’appagante fede distruttiva, il deliquio di piacere di sentirsi almeno una notte, almeno in quel cantiere, più forti di tutte le leggi. Eh, già, eravamo proprio una setta in piena regola, esclusiva e autoalimentata, come da dizionario. A scioglierla è stato il palesarsi delle femmine, la forza incontrastabile dei primi amori, dove il settarismo era ancora più eversivo e esclusivo, due soli membri contro il mondo intero.

E così sto a sentire la Ebe e mi viene una gran tenerezza. La Ebe, la gentile, laboriosa, mite signora Ebe che è venuta a vivere con i suoi due figliolini in una casetta qui davanti, la nostra nuova vicina che fa un po’ di tutto per tirare avanti, stira nelle case, spolvera gli uffici, ci vende le cose del suo orto; dicono in giro di un grande amore andato a male, di speranze artistiche buttate nel cesso, di ingiustizie e raggiri. E oggi suona perché ha due belle verze da dare, e suona perché ha voglia di parlare; di cose delicate e così suona allusiva, persino criptica, ma le piacerebbe che capissi, sarebbe così contenta se il vicino tanto gentile fosse d’accordo con lei che il vaccino è una brutta faccenda, che forse è una trappola, che anche l’infezione a ben vedere è una montatura, e quelli che hanno rubato le elezioni a Trump adesso ci ruberanno le nostre. Sarebbe un orgoglio per lei se riuscisse a cooptarmi. Perché finalmente ha dei nuovi amici; la scorsa settimana è andata a certe riunioni e ha detto la sua, con gli amici che si è fatta a quelle riunioni finalmente si è presa un bell’aperitivo in un bar che ha scioperato contro questa stronzata paranoica della chiusura, e si è sentita bene, si è sentita libera dal tormento di questo mondo così brutto, si è rinfrancata, e non gliene importa di quello che dicono alla televisione, e vorrebbe fare qualcosa. È rinata la banda del Boschetto, ha la sua missione impossibile, da qualche parte ha la sua baracca segreta, il suo complesso edilizio da vandalizzare, solo che la Ebe non è capace di far del male a qualcosa e farà del male a se stessa. Tenerezza; guardo la Ebe e ho in mente la fotografia della signora Babbit, morta ammazzata nell’assalto al Campidoglio di Washington, e un po’ le assomiglia, e è il viso di una ragazzotta senza colpa. E adesso che ci penso nemmeno il cornuto sciamano ha una faccia da delinquente, e chissà quanti ce ne sono come loro, ovunque, fratelli e sorelle della banda del Boschetto, umanità di adulti tornati per il troppo dolore preadolescenti, che hanno incontrato la fortuna di una cooptazione, e un’eccellente cura alla sofferenza della solitudine, della negazione, della povertà, del raggiro.